Stiamo entrando nel settimo anno del conflitto siriano, e al solo pensiero di scriverne provo un po’ di disagio: cosa abbiamo ancora da raccontare? Come spiegheremo al futuro l’impotenza di questi anni, la stessa impotenza che forse toccò ai nostri avi all’epoca del secondo conflitto mondiale, la stessa impotenza che però non ci ha impedito di parlare di acquiescenza e complicità, che non ci ha impedito di giudicare – con il senno di poi e con l’indice puntato contro la storia, indice che è una prerogativa solo dei posteri. Ricordate la storia di quella nave carica di ebrei in fuga all’epoca delle persecuzioni naziste, che partì dalle coste europee per raggiungere le Americhe, ma una volta arrivata verso quelle americane fu rispedita indietro, dovette tornare in Europa, e lì questi avventurieri partiti in cerca di salvezza trovarono la morte ad accoglierli? Se la storia serve (anche) a non ripetere errori e orrori, allora dovremmo tenere a mente quanto sia ancora più importante ora – nel dilaniato 2017 – il concetto di accoglienza.
Ad oggi il numero di morti in Siria è pari alla popolazione di intere città, con un bilancio che varia tra i 3 e i 400.000 morti in sei anni di conflitto (più dell’intera popolazione di Firenze o Bologna). Ancora più impressionante è il numero di siriani che hanno dovuto abbandonare la propria casa, più di 11 milioni gli sfollati (l’intero Belgio, l’intera Grecia, più di tutta la popolazione portoghese residente in Portogallo). Di questi 11 milioni quasi in 5 hanno trovato rifugio all’estero, gli altri sono disperatamente allo sbando nel paese.
C’è uno scatto del fotografo Joseph Eid che è diventato simbolico negli ultimi giorni, e racconta la storia di un uomo siriano come un altro, un 70enne collezionista di automobili vintage che siede tra le macerie di una casa ad Aleppo, fumando la pipa e ascoltando musica da un giradischi meccanico che non necessita di elettricità. “Sta ascoltando una vecchia canzone di Mohamed Dia al-Din“, racconta Eid. È anche così che il vecchio siriano tenta di trovare la sua normalità nell’insensatezza delle giornate, i riferimenti della sua giovinezza, della sua terra. Perché per non perdere il senno e il senso, abbiamo bisogno di radici.
La poesia beve l’acqua di vita, ma
da sorgenti immerse
nelle pieghe del corpo. (Adonis)
È difficile parlare di poesia negli ultimi sei anni. Come molti conterranei, il poeta Adonis ha abbandonato la sua Siria, ma continua a comporre versi, e a contestare il profondo intreccio di geopolitica e interessi che ha divorato la sua terra dall’esplosione del conflitto. Le primavere arabe, che all’inizio furono salutate con fervore, si sono rivelate più amare del previsto, si sono scontrate contro la realtà, e quello che resta oggi del gesto simbolico di Mohamed Bouazizi, che accese il moto arabo in Tunisia dandosi fuoco il 4 Gennaio del 2011 in segno di protesta, è una lunga coda di eventi, è il dissapore con cui una speranza libertaria si è scontrata contro il muro degli interessi di Occidente e Oriente.
Quella stessa ansia e sete libertaria arrivò in Siria nel primo trimestre del 2011, in rivolta contro il regime di Bashar al-Assad, la cui famiglia era al potere da 40 anni. Il 26 Gennaio Hasan Ali Akleh segue l’esempio di Mohamed Bouazizi e si dà fuoco in segno di protesta, nel giro di pochi mesi si forma un gruppo di opposizione che diventa uno dei centri nevralgici del conflitto siriano, l’Esercito siriano libero.
Da parte sua Assad prova a fermare i ribelli, sedare la rivolta e punire i dissidenti. Il 26 Febbraio 2012 promuove un referendum su una nuova costituzione, che viene approvata con il risultato dell’89,4% dei voti a favore. Nella nuova costituzione ci sono piccole concessioni al popolo siriano, si apre alla possibilità di formare partiti di opposizione anche in Siria, ma è solo un’apertura di facciata, un tentativo di contenere il malcontento popolare.
Tuttavia la guerra civile è irrefrenabile, e l’avanzata dei gruppi di opposizione alla conquista del territorio siriano pure. Qui ha inizio il lungo teatro degli orrori a cui stiamo ancora assistendo. Assad prova a tenere fuori dal conflitto gli occhi del mondo, accusa i dimostranti di non essere in rivolta per le riforme democratiche ma solo per instaurare uno Stato islamico radicale. Inizia a spargersi la notizia che si prenda anche la libertà di usare armi chimiche contro la popolazione e i ribelli, e il mondo resta effettivamente a guardare mentre non si esce vivi dagli anni Duemila. Lo scorso agosto Anne Applebaum sul Washington Post ha scritto che è stato un disastro non intervenire in Siria, Nicholas Kristof del New York Times lo ha definito il peggiore errore di Obama. Se Bush jr. era l’esportatore invasato di democrazia, gli anni di Obama hanno reso chiara l’inutilità dell’Onu.
Bisogna riflettere – con il rischio di perdere il senso dell’orientamento – su quelli che abbiamo chiamato grandi giochi geopolitici o alleanze strategiche con interessi disgiunti, su tutte le fazioni e le forze in campo. L’alleanza in salsa sciita Assad-Russia-Iran per esempio, o gli interessi americani sempre legati a doppio filo al fronte sunnita, alleanze e fidelizzazioni che hanno agito come grandi blocchi. Nel già difficile scenario di intrighi e fazioni di potere c’è anche il fronte dell’esercito curdo, che approfitta della situazione di debolezza di Assad per provare a rivendicare la sua lotta per l’autonomia del Kurdistan siriano (Rojava) – con irritazione turca, naturalmente.
È questo scenario che ha acceso la guerra civile, è questo scenario che ha mandato nel caos un paese e condannato tutte le parti innocenti in lotta: lo stallo, la grande crisi umanitaria, la terribile dimenticanza del grido dell’innocente nel nome della realpolitik. Come se non bastasse, in una terra già divorata dalla disgrazia, ecco arrivare l’Isis a rimescolare ancora le carte. Come abbiamo avuto modo di mettere a fuoco, l’Isis non è un gruppo armato di ribellione siriana, ma un’organizzazione transnazionale di ispirazione sunnita che prova a sfruttare la guerra civile in Siria.
Se l’Esercito di liberazione siriano non riusciva a scalzare via Assad (nonostante un certo sostegno di armamenti dall’estero), allora si aprivano le condizioni per dare spazio ad altri gruppi di potere e lotta come l’Isis, che entrava dall’Iraq alla conquista di una terra amareggiata. In questo scacchiere disperato – acuito dalle grandi migrazioni – come dimenticare le vecchie parole della Clinton che attribuiva una responsabilità del made in Usa all’Isis. La dichiarazione ha ovviamente dato manforte a tutto quel sottosuolo che anima le teorizzazioni complottiste, anche se ovviamente è chiaro che il discorso della Clinton fosse diverso: quello che intendeva dire è che nell’Iraq post-Saddam (destituito – e ucciso barbaramente – dagli Usa) si fossero create le condizioni per la costituzione di un gruppo di ispirazione sunnita che in un primo momento deve aver acceso le speranze statunitensi riguardo all’idea che potesse essere facilmente controllato. Quando è stato chiaro che l’Isis sfuggiva di mano agli interessi americani alla Presidenza devono aver reagito con grande imbarazzo. Non restava che affidarsi ai curdi.
È comunque con l’Isis che si accendono i riflettori internazionali su questo teatro assurdo e tetro, l’assedio di Kobane diventa il simbolo della resistenza curda all’avanzata dell’Isis, in particolare per gli occhi dell’occidentale (gli aerei americani in supporto fanno il resto). Forse a questo punto ci siamo svegliati dal sonno, ci siamo accorti che qualcosa in Siria stava succedendo e ci riguardava, riguardava tutti, non solo il vecchio siriano di Damasco che provava a distrarsi dalle bombe ascoltando vecchi vinili. Quell’urlo scandaloso che fa l’uomo di fronte al destino e alla natura, quell’urlo dannato contro le ingiustizie di questa terra, si depositava finalmente – e fatalmente – nella nostra carne. Perché c’erano di mezzo le conseguenze, le nostre paure, la minaccia che diventava sempre più estesa, si allargava geograficamente e sfuggiva di mano: il vecchio karma si abbatteva sulle nostre teste.
E questo sentimento di insicurezza e predominanza del senso di protezione occidentale, rimescolava tutto lo scacchiere degli intrighi di potere. Non c’era da fidarsi dei sunniti, gli sciiti filo-russi sembravano “il minore dei mali possibili“. Il regime di Assad usava armi chimiche? Restava “il minore dei mali possibili“. L’Esercito di liberazione siriano era il gruppo più solo del mondo. E i curdi, dopo essere stati aiutati (usati?) a Kobane, venivano abbandonati alla mercé dell’interventismo turco. Si narrava che solo Assad, un dittatore, potesse tappare i buchi del caos siriano. E così siamo arrivati al paradosso in cui oggi Assad rilascia interviste come un illuminato democratico che propone pace ai siriani, referendum, elezioni, in opposizione al terrorismo.
L’ultima edizione degli Oscar ha premiato (a parte La la land, anzi Moonlight) un documentario che racconta i Caschi Bianchi siriani, The White Helmets, distribuito e prodotto da Netflix: 40 minuti intensi che raccontano la vita di questi volontari che soccorrono i civili in mezzo alle bombe. Il film è girato ad Aleppo, la stessa città dove tra le stesse macerie il vecchio siriano continua a usare il suo giradischi. Dall’altra parte dell’oceano, il famoso travel ban ha impedito al direttore dell fotografia del documentario Khaled Khateeb di presenziare alla notte degli Oscar, in cui il doc è stato premiato. Ma basta avere tutti un bel giradischi, per dimenticare un attimo le macerie e gli strazi del mondo negli ultimi sei anni. Anche solo per un attimo.