Che saranno mai 7 minuti? Ne “perdiamo” così tanti con leggerezza distratti dalle sciocchezze della vita che la risposta alla domanda “Rinunceresti a 7 minuti della pausa pranzo pur di mantenere il tuo lavoro?” sembra chiara, scontata. Sì, certo. Stiamo ancora a pensarci?
Una fabbrica tessile di Latina vive un passaggio di proprietà: acquirenti francesi in arrivo. Cosa accadrà? La precarietà del lavoro di oggi, senza certezze né garanzie, che si manifesta nuda, scoperta. Basta una parola del padrone. Eppure i nuovi proprietari si mostrano benevoli: promettono di mantenere tutti i contratti, nessuno perderà il proprio posto. Unica condizione: Rinunciare a 7 minuti tra un turno e l’altro.
Il film di Michele Placido, trasposizione cinematografica di un’opera teatrale di Stefano Massini, liberamente ispirata a vicende realmente accadute in Francia qualche anno fa, raffigura lo scontro dialettico di undici donne, delegate sindacali del corpo lavoratori della fabbrica. Nelle loro mani il potere di decidere e la responsabilità delle conseguenze.
Il gruppo è eterogeneo: diverse nazionalità, età, passato alle spalle. Ognuna porta con sé un’esperienza di vita, un presente da sostenere, un futuro indefinito, messo in discussione ancora una volta. Eppure tutte immediatamente si ritrovano compatte sulla posizione da mantenere in merito alla questione. Perché perdere ancora tempo?
Servono davvero quindici minuti per mangiare? Chiede Kadil, immigrata africana che ha dovuto affrontare ben peggio pur di arrivare alla terra promessa, ad un lavoro. Io posso mangiare con una mano e lavorare con l’altra – afferma con una naturalezza spiazzante.
L’unica ad opporsi è Bianca, la più anziana, colei che da decenni vive la fabbrica, quella fabbrica. Colei che ha coscienza degli eventi, delle dinamiche, delle lotte sociali susseguitesi negli anni e di un continuo ritorno. Di una pausa pranzo che ha visto la sua durata ridursi, da un’ora, poi mezz’ora, poi quindici minuti. Rinunciare, ancora, per cosa?
Bianca è sola ma decisa. Ferma nella sua volontà di aprire quanto meno al dialogo, al confronto prima di dare la loro approvazione alla richiesta giunta dai piani alti.
7 minuti sono pochi per il singolo, ma moltiplicati per ogni lavoratore sono ore e ore regalate, ore che non verranno mai pagate e neanche riconosciute. Una nazione fondata sul lavoro, in cui però questo lavoro non ha dignità. O sei di là, tra coloro che comandano e festeggiano con mozzarelle fresche e calici pieni oppure sei di qua, fuori, in attesa, con i piedi poggiati su una base fragilissima. E il personaggio di Bianca, in tutta la sua integrità, diventa personificazione di una bandiera, di un’idea: il lavoro è un diritto e come tale non dobbiamo ringraziare perché qualcuno ce ne sta facendo dono né subito inghiottire pasticcini che altro non sono che sottili minacce indorate.
Lavoratrici chiuse in una stanza, raccolte intorno a un tavolo a farsi battaglia, a difendere il proprio pur consapevoli di dover arrivare a un responso comune. Non a caso 7 minuti, escluso qualche preambolo e brevi incursioni in un esterno che non può interferire, solo attendere, resta racchiuso in quattro pareti spoglie e consumate, a indicare l’impossibilità di sottrarsi al momento campale e confermare la natura teatrale dell’opera stessa. E non esiste una protagonista: ogni donna, qui, ha il suo peso. Il suo modo di rubare la scena, grazie a una sceneggiatura che si fa forte di dialoghi costruiti ad hoc, senza pause che non siano ponderate e funzionali e scene incisive, simboliche. Così traboccanti da privare a tratti 7 minuti di quel contatto con la realtà di cui tanto avrebbe bisogno.
La falla, infatti, in una pellicola che sicuramente avrebbe tanto da offrire dal punto di vista tematico e della bravura attoriale si fa presto a trovarla. Il cinema italiano rivela delle caratteristiche distintive, in negativo, e anche 7 minuti purtroppo cade nella trappola. Aldilà delle prese di posizione di alcune protagoniste mutate improvvisamene senza apparenti giustificazioni, ciò che più volte suggerisce allo spettatore un sorriso nato dal divertimento amaro è la presenza di componenti musicali e di sceneggiatura assolutamente patetiche, volte a suscitare commozione e compassione a seconda dei casi. Un coinvolgimento emotivo forzato che strizza l’occhio a un determinato tipo di pubblico, che con fare critico mi permetto di definire pigro e superficiale. Ed è un peccato perché il risultato è forse lo svilimento stesso di un messaggio di cui invece si ci voleva fare fieri portatori.
Anche se il peccato, il vero peccato, è che nel 2017 abbiamo ancora di ribadirlo, questo messaggio.