Moderat. La summa di ciò che vuol dire fare corrente artistica nel XXI secolo, secondo Monkeytown Records, è tornata.
Definire Moderat solo come un supergruppo tra produttori quotatissimi della scena berlinese è quantomai riduttivo.
I tre assieme incarnano l’essenza stessa di quello che avviene a Berlino dalla fine degli anni’90. Il crogiuolo culturale che si è venuto a creare ha permesso agli artisti di crescere differenziarsi e poi interagire tra loro creando un ponte tra le nicchie ed il resto del mondo.
Già, dopotutto l’enormità del progetto Moderat sta proprio nell’essere stato in grado di spiegare e rendere fruibile la techno al mondo intero. Non è un caso se i due tour fatti fino ad ora abbiano realizzato un numero incredibile di sold out un po’ ovunque, così come non è un caso neanche trovare brani dei Moderat utilizzati in pubblicità.
Ed il progetto a tutto tondo comprende anche l’affidamento al collettivo Pfadfinderei, altro nome grosso della Berlino a cavallo degli anni ’00, di quanto riguarda tutta la parte grafica, che ha costruito tutto il simbolismo del progetto Moderat, così come la parte scenica dei live.
Proprio per questa unitarietà, trovo quantomai inutile ogni volta andare a ricercare in quale misura nella composizione si senta più la mano di Apparat o più la mano dei Modeselektor. Dopotutto anche questa volta il progetto ha un’anima estremamente coerente e non ci sono significative oscillazioni nella qualità dei pezzi.
Tutto il lavoro è infatti attraversato da un’atmosfera profondamente crepuscolare. Il cantato di Apparat assume quasi sempre toni elegiaci, a tratti assomiglia in modo incredibile al timbro di voce di Thom Yorke (mi è capitato più di qualche volta di sentire amici affermare con certezza che il primo singolo Reminder fosse proprio cantato dalla voce dei Radiohead); la cosa non può che dare un’impronta forte al disco se si considera che i pezzi senza traccia vocale siano solamente due, Finder ed Animal Trails, che poi finiscono per essere quelli più utilizzabili per il dancefloor.
Già perchè Moderat III è un disco quantomai indirizzato all’ascolto.
Per carità, i suoni utilizzati dai tre non si discostano in maniera eccessiva da quelli usati nel disco precedente; di certo sono generalmente meno compressi, ma questo non renderà difficile tirarne fuori dei remix interessanti (la versione deluxe del disco esce con la versione remixata e con quella strumentale in classico stile club music).
Quello che cambia in modo significativo è il modo di accostarli.
Le scelte compositive improntate ad un minimalismo estremo, come si sente già nella bella Eating Hooks in apertura, sembrano strizzare l’occhio più che al club, all’ascolto in cuffia al termine di una serata.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel primo EP dal titolo Auf kosten der gesundheit.
Intendiamoci non è che sia sparita la cassa dritta o il basso pulsante, in Running ci sono eccome, solo che anche questi aspetti compaiono in maniera molto dosata per non snaturare quella che è la vera innovazione per il genere, la melodia.
L’impressione è che dietro tutti i brani ci sia una regia che, come in un’orchestra, modula, dirige, lima, piega, enfatizza e taglia (sopratutto taglia) e sinceramente scoprire chi dei tre abbia la bacchetta in mano lo trovo uno sterile esercizio di retorica, perchè tutto sommato credo che debba bastare che questo modo di produrre porti a delle perle come tutto il blocco centrale di questo disco, da Ghostmother, per chi scrive il punto più alto del disco, con il suo cantato vagamente soul e la chiusura con un suono che sembra un clarinetto effettato, a The Fool, brano che può ricordare perfino un certo Vangelis (lo so è un accostamento ardito, me ne assumo tutte le responsabilità).
La chiusura affidata ad Ethereal parla da sè (ascoltare per credere).
Suonare nei Moderat, dev’essere stressante.
Aver significato tanto per la techno e l’elettronica berlinese ha creato sul gruppo delle aspettative non indifferenti. Così come per il secondo volume, anche l’uscita di quest’ultimo capitolo della saga è stata salutata da reazioni alterne.
Chi non ha accettato l’eccessiva presenza del cantato, chi ha giudicato il disco eccessivamente monocorde quando non monotono.
Ma si sa, essere avanti a tutti può portare a non essere compresi.
Farlo senza sfornare singoloni catchy, poi, è ancor di più una scelta ardita.
I Moderat però, da bravi tedeschi, lavorano bene sotto pressione e noncuranti di tutto questo si limitano a fare quello che sanno fare: rivoluzioni.
E questa volta lo fanno togliendo al dancefloor quel che appartiene al crepuscolo.
P.S. La recensione esce volutamente senza voto, perchè ho ritenuto il numeretto, che sterilmente si sarebbe attestato tra il 7 ed il 7 e mezzo, decisamente limitante rispetto a quello che la band è riuscita a produrre. Non vogliatemene.
Monkeytown Records, 2016