Davvero, c’era qualcosa di diverso. Non è stato soltanto lo scarto termico fra l’autobus 33, in cui sarebbe giusto passarci l’estate, e il passaggio nell’inferno dei foodtruck fino all’ingresso, nonostante la sua drammaticità. Era più quel sentimento che avverti quando torni a metà di un’opera che hai visto muovere i primi passi sotto i tuoi occhi, quando gli ingranaggi partono e continuano senza di te. Lo vedi nei ragazzi del bar che si muovono con le note della Sweet Life Society che ha già cominciato a far ballare i più puntuali, gioca in casa e sono tanti gli amici fra il pubblico con cui si ricongiungono a concerto finito. Si muovono perché tutto ormai funziona naturalmente, senza più la rigidità degli imprevisti, più naturali e a loro agio. Anche l’ambiente se ne fa contaminare e il clima è festoso, la fila più ordinata, la band spende tutto lo swing e tutte le influenze che può per far divertire e non passare soltanto come quella band che ha aperto i Chinese Man, nella loro unica data italiana, quello che tutti stanno aspettando.
Non sai se ci sia una spiegazione sotterranea sul fatto che ci siano così tante spirali tatuate su pelli diverse, se sia un segno di appartenenza o meno, se ci sia effettivamente qualcosa di necessario per poterne essere parte. Questo non importa alla Sweet Life Society, che continua a buttare sul pubblico le sue contaminazioni fatte di fiati e chitarre, basi reggae e vocalità hiphop, fino al soul e allo swing. Due genitori si portano sulle spalle il figlioletto che si muove a tempo e scappa da ogni parte. Anche questo c’è, le famiglie, e i ragazzi che non chiedono di più di quello che già stanno ricevendo. È un martedì estivo, le scuole sono chiuse, chi non va in vacanza e non scappa dalla città, chi domani lavora e chi ha gli esami, si ritrovano tutti qui. Prima dell’arrivo dei Chinese Man e dei titoli di coda, fanno riunire il pubblico in un cerchio che si rincorre senza prendersi mai, chi rimane sul lato e chi si butta dentro, creando per davvero quella spirale di corpi che prima era soltanto un disegno. C’è un po’ di attesa quando le luci si spengono e dall’altro palco arriva un sottofondo diverso dalle attese. Ci vuole tempo per montare il set del collettivo di Marsiglia, ma nessuno sembra volersi fermare, anche se la musica si sente poco e da lontano, forse è solo per non perdere l’abitudine. Alle undici tutto è pronto a partire. Prima gli ottoni, poi le percussioni, infine i tre cinesi, insieme al beat e alle urla. Lo show comincia, le luci e le telecamere in presa diretta, il visual, l’ingresso di Youthstar e della sua voce rude, che provoca il pubblico e lo spinge a raggiungere un livello superiore, lo stesso a cui stanno assistendo. È uno show curato nei minimi particolari, non c’è tempo nemmeno per gli errori tanto la frenesia porta fuori e dentro al palco i suoi protagonisti, ci vuole poco perché anche Taiwan Mc si prenda la sua parte, perché dall’afrobeat si arrivi alla dubstep francese, e da Don’t Scream si passi a Independent Music. Ti entra dentro e ti fa sudare, non riesci a liberarti di un groove che ti sfonda polmoni e fegato, più di quello che senti e butti giù.
La contaminazione è una parte fondamentale, come i viaggi e la conoscenza dei propri mezzi, ci hanno detto, ed è quello che si percepisce di più, anche se ai vinili si è sostituita la tecnologia e alcuni beat si rincorrono fra di loro. È un canto indipendente, di chi è uscito dalla strada e si è creato la propria famiglia di artisti. Quello che portano le percussioni e i fiati sono la rivincita dell’analogico, capaci di dare un contributo superiore a una musicalità già altissima. È una grande celebrazione, lo sentono le persone che non si fermano mai, nemmeno quelle più indietro al palco, lo sentono Zé Mateo, High Ku e SLY quando si allontanano dalla postazione per muoversi sul palco insieme agli altri, fino a prendersi gli applausi finali e un’uscita di scena che è solo annuncio per un nuovo ingresso e per i due ultimi brani. Anche nelle strumentali è un continuo trascinamento, fino all’ultimo definitivo passo alla fermata dell’autobus, prima di tornare a casa. La lotta per entrare, chi ti spinge come se stesse perdendo il treno della vita, di nuovo il condizionatore glaciale, la coppia che si bacia per quaranta minuti buoni ma che poi si lascia fra le lacrime, la schiena sudata di quello che ti sta di fianco appoggiato alla sbarra a cui ti reggi, e chi stringe la borsa a sé neanche fossi il re dei ladri. Ma i concerti sono soprattutto questo, e non puoi che goderne, più o meno.