Vedere un film di Moretti è sempre un viaggio nelle scatole cinesi: più ne hai visti, più riesci a capitalizzare i segnali.
Navigando nel microcosmo di Mia Madre capiamo subito di essere in un’enciclopedia della semiotica morettiana.
Ecco, allora, un elenco di storici oggetti d’affezione, materiali e non.
La flebo
Estrapolata dal calvario del terzo episodio (Medici) di Caro Diario, in Mia Madre non è soltanto il feticcio della malattia, ma una clessidra che accompagna i personaggi e incanala il flusso narrativo verso il più scontato degli epiloghi.
Il Motorino
Le volte disegnate per le vie di Roma in Caro Diario, il gorgo disseminato di ritagli di vecchie riviste nel finale di Aprile: una costante. Nel nostro film, carico di immagini da tramandare, le lezioni di guida diventano un passaggio di testimone. Tutti possiamo misurare la nostra vita in motorino.
La Panchina
Una vera e propria camera di decompressione, lo spazio ideale per lasciare all’attore qualche minuto per dialogare con il pubblico e con il suo personaggio. La panchina di Ecce Bombo racconta l’inflessibilità di Michele di fronte ai paradigmi della vita di coppia. In Caos Calmo, diretto da Antonello Grimaldi, Moretti proietta la dimensione domestica sulle sbarre verdi della seduta. In Mia Madre, invece, la panchina non rappresenta soltanto il luogo della rivelazione intimistica, ma anche e soprattutto il momento di sfogo di un personaggio abitato da quel caos calmo che Pietro riusciva a gestire e che Giovanni non riesce a governare fino in fondo. E allora saranno in due, per un momento, a perdere la bussola, e a non capire più niente. La protesi artificiale della panchina riunisce graficamente, almeno per un istante, i due corpi in conversazione.
L’immagine della lotta di classe
Ha caratterizzato i suoi cortometraggi prima, Palombella Rossa e in qualche modo Aprile poi: oggi ci viene presentata come una deformazione macchiettistica dell’amara versione di Petri. Le comparse poco azzeccate, scelte a casaccio dalla troupe, forse non sono che i protagonisti della nostra lotta, in cui la classe operaia ha smarrito identità storica e ha le sopracciglia ad ala di gabbiano.
Il metacinema
La finzione cinematografica di Sogni d’Oro e de Il Caimano si dilata e assume le forme di un metacinema radicale. Il cammino del film nel film svela una protagonista che si rassegna a stento al fardello della regia, cercando di scrollarsi di dosso l’onere della corona, intimando più volte ai collaboratori di non assecondare, di non abbandonarsi al timore reverenziale.
Altra storia concentrica è quella della fallimentare didattica del dialogo con l’attore. Margherita insiste da anni con la questione dello straniamento brechtiano, indottrinando protagonisti e comparse, senza che gli stessi siano in grado di comprenderla, perché non sanno stare accanto al personaggio o, quantomeno, non sanno cosa voglia dire; al massimo lo fanno e basta.
L’accoppiata fragilità/capacità direttiva, d’altronde, è uno schema ricorrente nella storia del meta-cinema, per lo meno quando si tratta di disegnare la sagoma del regista. Prendiamo, per esempio, Effetto Notte: nelle ore di veglia François Truffaut veste i panni del maestro della cinepresa, abile catechista e coordinatore; di notte, in sogno, si infrange contro i fantasmi di un’esistenza travagliata, svelando un’insicurezza che la sua maschera non lasciava intravedere.
Anche in Mia Madre il binomio del Re Nudo nasce garantendo ai due profili che lo compongono (re e corona, essere umano e regista infallibile) un discreto margine di autonomia, allacciando la vicenda personale alle visite in ospedale e restituendoci sul set l’immagine dell’inflessibile gerarca del cinema. A mano a mano che la storia personale della Buy va involvendosi, però, il set e l’ospedale sprofondano in un unico, claustrofobico palcoscenico.
I sogni d’oro
La dimensione onirica, proiezione ultima delle nevrosi di Michele Apicella, dei suoi deliri semi-coscienti, assorbe tutti i momenti più crudi, condensandoli fuori dal protagonista.
Il meccanismo della doppia delega funziona e alleggerisce Margherita dell’eredità di un filotto di personaggi non esattamente facili da ospitare.
Il lutto
Moretti riscopre la metabolizzazione del lutto. 14 anni fa, con La stanza del figlio, il regista si approccia per la prima volta al tema della perdita, corrispondendoci un’elaborazione isterica, travagliata, regressiva e perversa nel suo sviluppo, ma pur sempre rasserenante e piana nei risultati. Nel nostro caso, Moretti tenta di bissare quella serenità finale accompagnandola all’episodio di una morte matura, ineluttabile, da preventivare: quasi naturale.
La mitosi
Immaginate un unico personaggio scisso in più parti, con più volti, più espressioni, più sfere emotive. Ecco: la nostra chimera eredita da un lato i caratteri passivo-aggressivi di alcuni personaggi della filmografia di Moretti (guai a pensare che Giovanni possa essere registrato come una maschera conciliante o addirittura remissiva), dall’altro la pedanteria, la sociopatia, l’esplosività delle interpretazioni più aspre (vedi il Michele Apicella di Sogni d’Oro). Il tema del trasloco del profilo autobiografico/autoreferenziale in capo a un personaggio di sfogo è una sfida già nota, abbozzata ne Il Caimano e raccolta in Habemus Papam, che raggiunge l’apogeo nella sua versione targata 2015. Un espediente comodo ed efficace per attestare un progresso nella psicologia del regista, non soltanto professionale, senza ricorrere a mosse plateali. D’altronde pensare che Moretti non metta se stesso al centro della vicenda (seppur mediatamente) sarebbe da sciocchi, e dal canto suo, sarebbe tradire un ideale cinematografico. Lunga vita a Narciso.
L’amnesia
Se in Palombella Rossa Michele smarrisce l’identità politica, nel nostro caso Barry Huggins potrebbe aver smarrito la dimensione attoriale, pur dimostrando di conservare intatti i suoi riferimenti artistici. Turturro non associa i volti ai nomi :ecco il perché del teatrino all’ingresso dell’hotel, al suo arrivo, e tanti altri segmenti in cui il personaggio appare inutilmente avventuroso e sfacciato.
La sua prosopagnosia, svelata solo in un secondo momento, ci offre un personaggio molto più complesso del previsto, che va oltre le baggianate su Kubrick, Fellini e De Filippo.
Le parole importanti
Gli equivoci linguistici non sono più una questione di stato. Se Palombella Rossa era un manifesto di intransigenza, Mia Madre rispolvera un po’ di autoironia e amara rassegnazione, quella tolleranza che suggella un complesso di superiorità talmente netto che non richiede proclami. E voi, big boy, come lo tradurreste?
La musica degli anni 70
Gli echi nostalgici di Leonard Cohen e Jarvis Cocker sono splendidi carillon che ci guidano tra dinamiche familiari da ridefinire e librerie da vuotare. Così l’orologio sembra essersi fermato e ci tornano in mente i Supertramp di Io Sono Un Autarchico, che ci accompagnavano nell’odissea del teatro d’avanguardia, o ancora Cohen in Caro Diario che ci guida nell’estate romana con la sua I’m Your Man. E così via all’infinito.
D’altro canto, un bel revival è sempre gradito.
Riferimenti e ossequi
Nel cinema di Moretti ci sono tante immagini prese in prestito, tributi più o meno celati e riconoscimenti traversi. Ci viene in mente l’ultima spiaggia ostiense di Pasolini in Caro Diario, giusto per fare un esempio.
In Mia Madre gli attestati di stima scarseggiano; forse, giusto nell’onirica fuga dall’ospedale, i più audaci avranno scorto l’impossibile liberazione di Aldo Moro dalla scena finale di Buongiorno Notte di Marco Bellocchio.
Sopravvivenza e immortalità
Se caro Diario ci aveva trasmesso l’idea di una vita oltre la malattia, Mia Madre ci consegna la rasserenante prospettiva di un futuro abitabile, anche da morti.