Dopo il successo de L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, 2021), vincitore del Premio Campiello, la scrittrice romana Giulia Caminito torna a raccontare la generazione dei millennial, ragazzi e ragazze senza futuro e bloccati in uno stato di adolescenza senza fine, costretti a sgomitare per un posto all’interno di una società che ancora crede nella piena realizzazione lavorativa e nel successo del singolo, quando i modelli economico-sociali sono al collasso.
Dalla scrittura onirica e al tempo stesso viscerale e corporea, Il male che non c’è (Bompiani, 2024) scoperchia il tabù del precariato giovanile e quello dell’ansia, un male invisibile che si è soliti sminuire, ridicolizzare o derubricare a una banale preoccupazione passeggera.
La narrazione procede lungo due binari: nel presente il protagonista, Loris, vive in preda all’angoscia di non realizzare i propri sogni e di essere divorato da un male che nessun medico riesce a diagnosticare. Questi capitoli sono intervallati da alcuni episodi dell’infanzia del ragazzo, per lo più ambientati nella casa in campagna del nonno: sono pagine rocambolesche, dominate da personaggi buffi, impacciati e allo stesso rassicuranti, come il nonno che si occupa dei suoi colombi e delle numerosissime luci di Natale e il suo amico Gelo, originario della Romania.
L’esistenza in ritardo su tutto e le tappe della maturità mancate
“Poi il quartiere gli era andato stretto, il rapporto col padre era diventato teso, dopo la laurea in Lettere si era messo in testa di voler lavorare in editoria, di voler fare cose coi libri, ed eccolo a ricevere colpi, ghigni e sputi, un giorno sì e l’altro pure”
Loris, è un trentenne malato immaginario al suo terzo stage nel faticoso, nonché poco remunerativo, mondo della cultura: lavora in una piccola casa editrice – dove ogni compito viene gestito in maniera emergenziale e lo stipendio arriva un mese sì e tre no – e vive in affitto in un appartamento di Roma che è per metà studio di registrazione, e per una piccola parte il guscio in cui nascondersi dal mondo. Il ragazzo ha tutta la vita davanti a sé, eppure qualcosa nel percorso si è infranto, i bordi non sono stati strappati nel modo corretto (come direbbe Zerocalcare), il suo orologio interiore si è fermato. Mentre tutti i coetanei escono di casa, trovano un lavoro stabile, la carriera si instrada, comprano un appartamento e progettano una futura famiglia, lui è in ritardo su tutte le tappe importanti della vita: a stento arriva a fine mese, vivacchia nel bugigattolo a 500 euro al mese nel contesto signorile di Monteverde pagato da suo padre e non ha ancora ottenuto un contratto che gli permetta di emanciparsi.
Più vede il futuro sognato e tanto agognato in casa editrice sgretolarsi, più viene incolpato dai colleghi di assenze dovute alle sue condizioni psico-fisiche e accusato di essere pigro: l’ansia incombe ed è pronta a divorarlo e ad allontanarlo dalla famiglia e dalla fidanzata dai tempi del liceo, Jo. La ragazza, attiva, dinamica e atletica, sembra aver trovato il proprio posto nel mondo grazie a un lavoro che l’ha resa indipendente dalla famiglia molto in anticipo rispetto al suo innamorato. Spetta a Catastrofe rovinare il loro rapporto e quello con i famigliari, una creatura al suo fianco da più di un decennio che, ogni volta, gli si presenta sotto un aspetto diverso e gli instilla allo stesso tempo sollievo e paura.
Sandro e Clara, i genitori, un porto sicuro con la loro disponibilità economica e le loro asfissianti preoccupazioni riguardo al futuro del figlio, sono titubanti riguardo il lavoro nella casa editrice: i pranzi domenicali nella provincia romana sono costellati dagli approcci, da parte del padre, a parlare di offerte di lavoro nelle agenzie interinali e dai continui dinieghi di Loris, che per svicolare dall’argomento insiste nel parlare di libri fuori catalogo che vorrebbe proporre al suo editore, con la speranza di ripubblicarli e di vedere il suo talento finalmente riconosciuto da tutti i colleghi.
“Ti pagano per questa cosa o spendi i tuoi soldi e basta? Che poi sono i miei soldi…
Sandro… La madre interviene per evitare che toni tra loro la medesima discussione con gli stessi esiti e allontanamenti, intanto osserva la metà delle lasagne che Loris ha scansato a un lato del piatto, come a volerla buttare fuori. Il figlio è pallido e si vedono le ossa sotto la camicia verde platano. I suoi occhi scuri sono sempre più scuri, come un fosso, uno strapiombo. Lui non ha occhiaie viola, sono gialle, sembrano i contorni dei lividi maturi.
Non è legittimo chiedere se lo pagano? C’ha trent’anni, e quanto starà al servizio per questa gente?”
Uno scontro generazionale
Al centro del romanzo vi sono lo scontro generazione e il tema della costante precarietà giovanile, specie per chi sceglie di lavorare nel mondo della cultura e dell’editoria. Il dialogo con il padre in uno dei tanti pranzi domenicali in famiglia è lapidario e incarna lo scontro generazionale tra i trentenni e i loro genitori, che ancora tendono a ragionare secondo dei modelli pre-crisi economica che ha messo in ginocchio il Paese.
“Non ci frega niente di quello che facevi tu a diciotto anni, papà. […] Non li hai più diciotto anni, e il mondo intanto è cambiato. Hai presente? Il mondo, la storia, le generazioni.
Ah, certo, è cambiato perché alla tua età io ero già sposato e mi mantenevo da solo.
Devi farmelo pesare ogni santa volta che mi aiuti con l’affitto della casa? Ogni volta?
Te lo ricordo perché sennò te ne stai adagiato su questa cosa. Passi le mattinate a lavorare tra tante virgolette, spendi soldi in libri, con tutti quelli che hai già, per far guadagnare gente che non ti dà stipendio, e io intanto pago. È giusto? Dimmi.
[…]
Mi ascolti? Stavo dicendo che io a diciotto anni mi sono impegnato e ho studiato per il concorso…
So tutto, ti ho già detto…
Basta con questo ti ho già detto. Cosa mi hai già detto? Che non è più così? È così, devi cercare, ti devi applicare e devi faticare per trovare un lavoro adatto, e una volta trovato devi faticare ancora per una carriera e per guadagnare meglio. Cosa pensi io abbia fatto? Non avevamo quasi niente, io e tua madre. I miei stavano in campagna con la pensione minima, e i suoi altrettanto. Gente che non ci ha regalato nulla di nulla. Questa casa la dobbiamo solo al nostro lavoro, e ne vado fiero. Tu hai qualcosa di cui andare fiero?”
In una società, come quella italiana, in cui gli stipendi sono fermi dagli anni Novanta e in cui prima dei trent’anni difficilmente si raggiunge la stabilità economica, gli under 35 sono costretti a giustificare la propria precarietà alle generazioni precedenti, ancorate al mito del successo dovuto all’impegno e ai sacrifici. Queste ultime, però, sono incapaci di capire che l’ascensore sociale si è rotto da tempo e che questa retorica non è più valida per i ragazzi che entrano oggi nel mondo del lavoro. Le parole del padre Sandro, anziché spronare un figlio sull’orlo dell’abisso, sono gettate al vento e autocensorie, ma non hanno alcun seguito positivo né causano un cambio radicale nei comportamenti di Loris.
Le difficoltà che si incontrano nel mondo del lavoro risultano ancora più insidiosi se si tenta di entrare nell’elitaria torre d’avorio cultura – dove tutto è cristallizzato e inaccessibile, appannaggio di pochi oligarchi che ne detengono lo scettro del potere – o quando ci si relazione con una sanità sempre più disgregata, distante e che non ascolta, addirittura fatica a vedere il protagonista.
Pertanto, la richiesta di Loris non è altro che di essere riconosciuto, accolto, compreso: è quella di una intera generazione che desidera essere finalmente vista per come è e non per come dovrebbe essere secondo chi ha iniziato a camminare prima nel mondo, senza accuse di vittimismo o di pigrizia.