Nel panorama del cinema italiano contemporaneo, Palazzina Laf emerge come un’opera che affronta con coraggio e sensibilità uno dei temi più complessi e dolorosi della nostra società: la rigida dicotomia tra vita all’esterno e all’interno dell’Ilva di Taranto.
Diretto da Michele Riondino (opera prima, tarantino doc e interprete del protagonista Caterino Lamanna), il film racconta la storia di dodici dipendenti, nella realtà diventarono poi 70, che nel 1997 furono forzatamente trasferiti in una palazzina inutilizzata dell’impianto, costretti a trascorrere la propria giornata senza fare nulla, senza lavorare, demansionati e deumanizzati, svuotati delle loro forze fisiche e mentali. In pratica una lieve agonia. Molti di loro erano i lavoratori più sindacalizzati.
La palazzina diventa un microcosmo dove speranze e angosce si intrecciano con la realtà dura dell’inquinamento e della precarietà.
L’Ilva di Taranto non è solo uno sfondo, ma una presenza costante e imponente che permea la vita dei protagonisti di Palazzina Laf. Le ciminiere che svettano all’orizzonte, il rumore incessante dell’altoforno, il cielo sul mare offuscato dalle emissioni tossiche, gli animali da pascolo che muoiono sono parte integrante del paesaggio fisico ed emotivo del film.
Riondino riesce a catturare con precisione la quotidianità di chi abita (e lavora) in queste zone, mostrando come l’Ilva influenzi non solo la salute fisica delle persone, ma anche il loro benessere psicologico e la loro visione sul futuro.
Si fondono le storie individuali con quelle collettive di una città che da anni lotta tra la necessità di lavoro stabile e il diritto alla salute, creando un ritratto potente e commovente.
Il film richiama fortemente l’opera di Alessandro Leogrande, scrittore e giornalista tarantino, che ha dedicato gran parte della sua carriera a raccontare le storie degli ultimi, dei migranti e dei dimenticati, e in particolare le vicende legate all’Ilva.
Leogrande, con il suo approccio rigoroso ed empatico è riuscito a far emergere le ingiustizie e le contraddizioni della realtà tarantina, la malapolitica e le contraddizioni in essere. Questa storia non parla solo delle condizioni di lavoro nel siderurgico ma pone l’accento sul primo caso giudiziario di mobbing in Italia.
Nelle pagine di “Fumo sulla città” lo scrittore ricostruisce le vicende dell’acciaieria a partire dalla nascita dell’Italsider e arriva a definire il sistema che si era andato costruendo a partire dagli anni ’60:
“Una microeconomia totalmente statalista, con tutte le conseguenze: la perdita di una dimensione reale dello scambio, l’assunzione di ritmi dopati, la burocratizzazione interna e, soprattutto, una mancata interazione con il territorio. Con il passare del tempo si è cercato di recuperare scampoli di mercato, ma è stato praticamente impossibile. Si è capito che le premesse iniziali erano davvero innaturali, che niente si sarebbe potuto contro una monocultura così estesa. Nonostante questo si è andati avanti verso l’agonia, perché troppi erano gli interessi in gioco, troppe le connivenze, troppo l’impulso a continuare nello stesso modo, finché fosse durata”.
Palazzina Laf si inserisce in questo solco, riprendendo la tradizione di un cinema impegnato e sociale (come già hanno fatto Tullio Giordana, Vicari, Di Costanzo senza scomodare troppo la Wertmüller di Mimì Metallurgico), che non si limita a documentare o a romanticizzare la sofferenza ma anche a far comprendere realtà non lontane da noi. Le storie narrate nel film riflettono la stessa urgenza che Leogrande esprimeva nei suoi scritti: quella di parlare di Taranto non solo come una città industriale, ma come una comunità umana che lotta per la propria dignità.
Nonostante il contesto drammatico, Palazzina Laf non è un film che si arrende alla disperazione; al contrario, emerge una forte componente di speranza, di pungente cinismo e di amarissima ironia dei personaggi. Quello che vedi fa male ma ad un certo punto ti viene rubata anche una risata.
Il film alterna momenti di crudo realismo a scene di grande intensità poetica (e politica), realizzando così un contrasto che amplifica l’impatto emotivo della narrazione. La sopravvivenza e gli espedienti per resistere all’alienazione diventano simbolo della città stessa: una città ferita ma ancora in piedi, ferma ma con la voglia di crescere, priva di una visione ma capace di trovare la bellezza anche nelle situazioni più difficili.
Palazzina Laf parla con forza e delicatezza di una realtà che non può essere ignorata. Attraverso il racconto delle vite che gravitano intorno all’Ilva di Taranto il film ci invita a riflettere sul prezzo che intere comunità pagano in nome di un progresso industriale scellerato. Il lavoro di Leogrande si manifesta in tutta la sua forza attraverso questo film, ma deve continuare e non arrestarsi, deve fluire negli spettatori e non essere dimenticato.