Ci sono molteplici modi di viaggiare che non richiedono un reale spostamento fisico. Intendo, in questo caso, al di là del viaggio tra il centro città e una delle sue più interessanti periferie, che abbiamo compiuto muovendoci da Torino a Collegno per recarci al Flowers Festival, reso non troppo difficoltoso dall’apertura straordinaria della metropolitana. A Torino, è risaputo, chi si trova sulla linea ferrata è un privilegiato, e chi ha pensato di organizzare questa bella manifestazione qui a Collegno indubbiamente ha avuto un’idea azzeccatissima: si tratta di una rassegna che prevede una serie di concerti singoli, piuttosto che un festival che esaurisce i suoi nomi in un paio di intensissimi giorni, una formula che, per quanto possa mandare in confusione i turisti, si adatta perfettamente alla realtà di Collegno, e che all’inizio dell’estate, per alcune settimane, trasforma un’area solitamente associata a magazzini e centri commerciali nel centro di gravità della scena musicale torinese.
Anche quest’anno, il festival ha allestito un cartellone di artisti di primo piano, scelti soprattutto tra il passato e il presente dell’indie italiano, band piemontesi dalla storia importante quali Africa Unite, Marlene Kuntz e Subsonica, grandi ritorni come quello dei CCCP e di Elio e le Storie Tese, ma anche Salmo, Venerus e Willie Peyote. Tra questi, spunta il nome degli internazionalissimi, britannici IDLES.
Così per una sera abbiamo preso la metropolitana e nel giro di una ventina di minuti, attraversando il tunnel, siamo sbucati direttamente a Bristol, in UK: lo scenario suburbano è lo stesso in cui molto probabilmente li avremmo visti suonare a numerosi chilometri di distanza, al di là del canale, forse giusto un po’ di erba in più a terra. Bristol, realtà postindustriale come Torino, una città resistente, una città indipendente, dotata di un suo carattere unico, ribelle e antiautoritario, come risposta al passato buio che l’ha coinvolta nella tratta degli schiavi africani secoli fa. Una città che forse da questo desiderio di allontanarsi dal passato ha acquisito il suo carattere mutevole: ogni volta che mi è capitato di tornarci, mi ha accolto con un mood diverso, un modo nuovo di riorganizzarsi intorno al suo magnifico centro. È uno spirito pienamente assorbito dai gruppi che ha prodotto, tanti, perché forse anche grazie all’influsso della comunità caraibica ereditata nella sua storia multiculturale, è una città che vive di musica, respira musica, produce musica. Quando ci vivevo, un po’ di anni fa, su questa webzine avevo dedicato alla scena bristolese una rubrica chiamata Bristol Sound, ed è con quello spirito che sono andato a vedere gli Idles e che redigo questo report.
Quando si nomina Bristol, di solito i primi nomi che vengono in mente sono quelli della scena trip-hop degli anni Novanta: Massive Attack, Portishead, Tricky. La città, alla sera, suona ancora delle loro sonorità, soprattutto nello scenario post-Brexit che a ridosso della crisi pare stia riportando quartieri come Stokes Croft – il quartiere di Banksy, della street art e delle case occupate – alla decadenza di quel periodo. Una decadenza produttiva e creativa, molto più interessante degli hub di sviluppatori di app che l’avevano presa in ostaggio. Gli Idles sono invece figli – e principali artefici – di un momento di grande rinascita del punk che ha aperto gli anni ’10, in cui la città si è riempita di una miriade di scatenatissimi gruppi locali. Tra questi, a partire dal 2009, è nato questo quintetto – il nome IDLES andrebbe scritto in maiuscole – di cui nessun membro, secondo la tradizione bristolese, è nato qui: la voce carismatica, Joe Talbot, che è di Newport, che sta giusto sul confine, ma dalla parte del Galles, e il bassista Adam Devonshire, del Devon, hanno infatti fondato la band mentre erano studenti a UWE, uno dei campus universitari della città. Sono stati poi raggiunti dal chitarrista irlandese Mark Bowen, l’anima delirante delle loro incredibili performance, da Jon Beavis alla batteria, e infine da Lee Kiernan, seconda chitarra, che si è unito alla band poco prima che si chiudesse in studio per il loro primo spettacolare album Brutalism, uscito nel 2017 e seguito poco dopo dal secondo Joy as an Act of Resistence, nel 2018.
Avevo visto per la prima volta la band live a questo punto della loro carriera nell’autunno del 2018, nel deserto della Moreno Valley in California, al Desert Daze Festival: un’orgia di schitarrate, urla ed energia, accolto da un pogo violentissimo. Stasera li ritrovo che sono una band affermatissima che ha scalato le classifiche mondiali, in occasione del tour che porta in giro Tangk, loro quinto disco, ma poco mi sembra cambiato: sono pazzi e scatenati come qualche anno fa, Bowen si presenta vestito da donna e anche a questo giro, all’improvviso, si lancia dal palco senza nemmeno disimbragarsi dalla chitarra, nemmeno il fatto di aver suonato a Glastonbury la sera prima pare sia riuscito a demotivarli, sebbene i fulmini nel cielo che annunciano tempesta li hanno convinti a fare un live leggermente più breve di quelli previsti da questo tour. La mia sensazione tuttavia è che abbiano ridotto il tempo tagliando le pause: infatti, i pezzi in scaletta restano 18, più o meno gli stessi che hanno suonato nel tour “Love is the Fing”, ma il loro live è 90 minuti no-stop di vibrazioni incontenibili, quasi senza sosta. I pezzi importanti ci sono, quelli più recenti e quelli meno: da “Colossus” a “Mr. Motivator”, da “Car Crash” a “I’m Scum”, “Gratitude,” “Benzocaine”, “POP POP POP”, “Never Fight a Man With a Perm”, “Dancer”, per nominarne alcuni. Ce li siamo goduti tutti, uno dopo l’altro, rimanendo senza fiato al posto dei membri della band, in una forma incredibile.
Bristol significa musica ma anche politica: le due cose non procedono separate. Come accade per Robert Del Naja dei Massive Attack, che torneranno a trasformare di nuovo Torino in Bristol alla fine dell’estate, anche il concerto degli Idles è stato generoso di invettive di Talbot contro i Tories e di appelli alla pace in Palestina. I brani risuonano di messaggi che invocano migliori condizioni lavorative per la working class e preoccupazioni per il futuro geopolitico del mondo. Perciò ascoltare gli Idles per me è anche un viaggio nel tempo, verso una Bristol che non esiste più – vi ho detto, è una città che cambia repentinamente e non è mai la stessa che si è lasciati l’altro ieri – e che è possibile trovare solo nella musica degli Idles, che ne hanno fotografato un momento. Potrei azzardare che è più facile ritrovare la Bristol che ho amato durante questo concerto, piuttosto che andando a visitarla in questi anni post-Brexit.
Alcune sere prima, questo stesso bellissimo cortile postindustriale ha accolto il revival dei CCCP, che purtroppo non sono riuscito a vedere. Dovendo scegliere, ho scelto gli Idles: il presente – o forse il futuro – contro il passato, Inghilterra piuttosto che Italia, o Germania, due approcci e due fasi estremamente diversi nello stesso ambito punk. I CCCP, come trasuda da questo bellissimo articolo apparso alcuni mesi fa in questa webzine, hanno esibito certamente uno spettacolo altrettanto emozionante, anche se vederli a Berlino avrebbe avuto probabilmente un altro sapore. Ma nella decisione è pesato soprattutto il fatto che i CCCP sono un gruppo che non ho mai sentito appartenermi e non lego dunque a nessun effetto nostalgia, al di là della loro capacità di portarci in un passato che ormai è diventato leggenda, mito, narrazione: dal vivo, per me, sarebbe stata in ogni caso una prima volta.
Con gli Idles invece ho una storia: quella che mi lega a una città che ho amato e che mi riporta a un festival nel deserto californiano, per giunta incalzati da una tempesta anche in quell’occasione, che invece a Collegno non è arrivata. Per fortuna. Due esibizioni altrettanto fantastiche, seppure diverse nel tempo, di una band giovane e della sua versione affermata, che non ha perso la sua scintilla. Se proprio di nostalgia bisogna parlare, la mia è legata al passato recente bristolese degli Idles piuttosto che agli anni Ottanta emiliani dei CCCP e al momento storico importante che hanno fotografato: una storia che parla dell’emigrazione italiana nella Berlino divisa e di una Germania che ritroviamo anche nei libri di Tondelli, se volessimo tornare al discorso sulla capacità dei gruppi italiani di diventare centri di gravità transnazionali, capaci di mettere in comune il paese con le sue comunità diasporiche, che ho affrontato in un’altra sede, in occasione dello scorso live dei Blonde Redhead. Ma vale per i CCCP lo stesso discorso che vale per gli Idles e i Massive Attack: la grandezza della loro musica ci accompagna in un viaggio che si svolge non solo nello spazio, anche nel tempo.
In un mondo che sembra cambiare così velocemente, allora forse è proprio nella musica che possiamo ritrovarci. La musica che trasforma le periferie industriali in questi momenti di incontro, di condivisione, di sinergia. Allora forse trova anche un senso questa narrazione della nostalgia che spesso ci viene sottoposta, che da strategia di marketing diventa strumento per riappropriarci del nostro posto, quando ci sembra che gli spazi che viviamo, mentre i giorni volano via, ci sfuggano da sotto i piedi. Perciò grazie, Flower Festival. Ma soprattutto, grazie Idles.