Per qualche istante, dopo la lettura de La luce difficile, si resta scossi e abbacinati. Tomás González scrive una lingua meravigliosa, con affilata leggerezza cattura la vita nella sua andatura più naturale. Capitoli brevi, frasi micidiali, immagini che si muovono nella memoria come dipinti sopravvissuti alla scomparsa del mondo.
Ciò che incanta nel romanzo di González è il continuo passaggio da un tempo a un altro, da uno spazio fisico a un altro, senza che il lettore avverta l’urto o lo scalino. Tutto è naturale come il plesso della vita.
Un momento siamo nella casa del paesino colombiano di La Mesa dove la voce del narratore – vedovo, quasi cieco – parla nuda e solitaria, la sua assistente è l’amica e confidente degli ultimi giorni; contemporaneamente siamo a New York, nella selva della memoria, dove la vita è una festa aspra, segnata dal ricordo di una famiglia spezzata da un incidente. È per via di una sciagura se l’ordine della vita viene rivoltato.
La progressiva perdita della vista del protagonista – per ironia, un artista visivo – s’accompagna al flusso dei ricordi: l’incidente del figlio, l’incapacità di convivere con il dolore, la scelta di morire, la rassegnazione al lutto. Pure negli istanti più disperati, la voce narrante resta serena, disincantata, lucida – ed è qui la maestria di González.
Mi piace come si deteriora ciò che l’uomo abbandona e come torna a essere inumano e bello. Mi piace questa frontiera. Questa specie di mangrovia.
Tomás González trova ispirazione negli anni vissuti a New York, rievoca memorie private, la malattia e la giovane morte del cugino Ramiro, la scomparsa della moglie Dora – la sua scrittura mescola tracce del passato, suggestioni della fantasia, riflessioni sul dolore e l’esistenza. L’artista che sta perdendo la vista si affida alla memoria per dettare parole e spingersi oltre i limiti del silenzio a cui è costretto da circostanze, incidenti, casi.
La luce difficile è quella inafferrabile, che quasi sfugge nei momenti di angoscia e di consumazione dei sensi nella lunga notte che tutti attende. González indaga temi forti come l’eutanasia e la morte senza rinunciare a tocchi di umorismo, non indulge nel sentimentalismo, accetta il gioco dell’esistenza, sa che la morte incombe sull’essere umano e il caso è un possibile portatore di disgrazie. Nella scrittura di González è implicito il sospetto che la vita sia totalmente arbitraria.
Lo scrittore colombiano scrive con la confidenza dei grandi narratori, quelli che riescono a espurgare un cliché di destino unico dalla voce narrante per raccontare la sostanza profonda dell’esistenza umana. González procede per sottrazione, come un intagliatore, uno scultore che affila sul marmo i pensieri del suo narratore, il pittore colombiano emigrato tra le luci di New York, l’ateo disincantato che si corica accanto a sua moglie, le stringe la mano, e attende la morte del figlio per eutanasia in una notte fatale.
C’è una bella tristezza nel romanzo di González. Il narratore ha un tono meditativo, mai moralista. Non vuole indicare nessuna strada, le sue parole sono confidenze stese sulla carta. Sembra di sentirlo palpitare il cuore strappato di González, che oggi vive ritirato nella selvaggia natura colombiana e da là continua a narrare le sue storie, sospese a metà tra la finzione e la realtà nella sua tenebrosa inafferrabile agilità.
Nella brevità di questo romanzo c’è molto più della sua trama, una scrittura che medita sul lento procedere della vita, le sue terribili accelerazioni fatte di incanti e amarezze, gli incidenti e le impredicibilità che sfuggono al controllo, il sottotesto che nel nostro buio più intimo ci sia sempre una luce che può squarciare l’oscurità.
González scrive di quegli spazi di resistenza a cui ci si afferra nel brancolare dei giorni: tra la nostalgia dei colori a olio e della polvere di carboncino, il suo artista al limitare del silenzio trova bagliori nelle parole, nelle persone, nella musica, in quel punto indefinito dove la notte può ancora illuminarsi se metti a suonare il pianoforte di Glenn Gloud o la chitarra di Tàrrega.
Qualcuno ha scritto che Tomás González sia il segreto meglio custodito della letteratura colombiana. Con l’edizione italiana de La luce difficile – da poco pubblicata da La Nuova Frontiera, tradotta da Lorenzo Ribaldi – veniamo introdotti nella remota foresta di un narratore in purezza, la scrittura come un’ascia in cerca di punti luce.