Il tempo lavora e tu?
C’è questa citazione, tra altre mille, nel densissimo libro di Salvatore Toscano edito da Baldini e Castoldi che mi permette di trovare un punto di partenza per raccontare cosa sono, cosa sono sembrate a me, queste trecento pagine di racconto personale ma anche universale.
La citazione è di Stanislaw J. Lec e riguarda il senso di colpa insito nel non scrivere, nel non sfruttare ogni attimo che abbiamo a disposizione per produrre qualcosa. Invece il protagonista del libro, che coincide con il suo autore, in queste pagine riesce a divaricare il concetto di tempo. C’è un tempo che va avanti, inesorabile – il libro si imposta con capitoli che segnano un conto alla rovescia che separa l’età dell’autore da quella del padre il giorno in cui è venuto a mancare. Poi c’è un tempo che va all’indietro, come un gambero, ed è il tempo della memoria. Una memoria tenuta per troppi anni sotto controllo, un freno inibitore che è anche il freno di chi comincia a scrivere, quello che ci porta all’autocensura, al cercare di evitare di scrivere delle cose che ci fanno male, quello del pudore, dell’autoconservazione. Questo freno comincia a scricchiolare quando Salvatore si rende conto che mancano poco più di una dozzina di giorni al momento in cui lui comincerà a diventare più vecchio di suo padre.
“posso scrivere solo su ciò che ho il terrore di affrontare e che potenzialmente potrebbe annientarmi”
Figura paterna cristallizzata ad un’eterna giovinezza, quella che ha fermato improvvisamente una vita in un Venerdì Santo del 1987. Come nella scrittura anche nella vita, una volta rimosso questo freno il racconto prende vita e diventa impetuoso. L’autore, quindi, diventa una sorta di cowboy nell’arena di un rodeo emozionale e Salvatore in sella ai suoi ricordi riesce a prendere il fiume in piena dei ricordi e a ricondurlo in un letto capace di scorrere fino al mare.
Non pensiamo però che questo sia un libro che sprofonda nella malinconia, anzi, tutt’altro. Il racconto si muove tra vari registri. La scrittura di Salvatore Toscano è precisa, erudita, ma mai noiosa. Il libro è una fonte inesauribile di citazioni che spaziano dalla letteratura più profonda ai film di Bud Spencer e Terence Hill, dalla musica internazionale a elenchi sconfinati e minuziosi di cartoni animati e film dell’orrore anni ’80 e ’90.
È la nostra vita, mi metto in mezzo come fossi uno dei protagonisti di questo racconto, la vita di chi è cresciuto negli ultimi due decenni del Novecento e si riconoscerà senz’altro nelle giornate raccontate da Salvatore. Famiglie numerose, assolati pomeriggi per strada a giocare a pallone, avventure con amici e cugini. I fratelli maggiori e gli amici più grandi come modelli inarrivabili, quelli che per la prima volta ci passano un disco o una cassetta di un album che ci segnerà per la vita.
Gli stupidi e i furfanti di Salvatore Toscano contiene tutto questo e molto altro ancora. L’autore compone le sue pagine come una ideale lettera d’amore a una persona che non si svelerà mai, ma parla anche ai suoi amici più cari, a sua madre, ad Antonio Moresco autore tra i più importanti della narrativa italiana che in queste pagine è materia viva, e che accompagna anche nella vita fuori dalla pagina Salvatore.
“Da molti anni rispetto questa regola idiota: evita la musica che ami di più per non sciuparla, fai di tutto per preservare lo stupore dei primi ascolti…”
C’è un bellissimo capitolo in cui si compone una playlist, attraverso quell’elenco di canzoni si racconta la vita di chi le ha scelte e si forma un quadro da cui il lettore può entrare in quella storia e forse in qualche modo ritrovare anche la propria. Ho ripensato a “È stata la mano di Dio” di Sorrentino, a Schisa che resta orfano e che cerca per tutto il film il modo di mettere insieme i suoi pensieri e dare una forma compiuta alla sua vita futura senza le figure genitoriali di riferimento. Come Sorrentino, che al discorso di ringraziamento degli Oscar aveva ringraziato i suoi numi tutelari “Fellini, Maradona e i Talking Heads” qui Salvatore ritrova i suoi momenti di gioia nella triade composta da Maurizio Sarri col suo Napoli bello e letterario, Mark Knopfler e Antonio Moresco.
E il padre? Il padre di Salvatore lo conosciamo un po’ alla volta, lo conosciamo per assenza e per contrasti, per racconti di prima e di seconda mano ma soprattutto lo conosciamo e con noi lo (ri)conosce anche Salvatore, per emozioni e sensazioni. Si dice spesso che la letteratura sia la forma su pagina che avrebbe dovuto prendere la realtà, un modo di raccontare le storie anche quelle vere, a modo nostro. Così alla fine non è tanto importante sapere con precisione chi fosse stato o cosa avesse fatto questa figura che aleggia su tutto il libro. La cosa importante, probabilmente, era la rottura di quell’argine che ha fatto ricominciare a scorrere il fiume. L’importante è stato fare il primo passo, cominciare a rompere un equilibrio statico e farlo diventare dinamico, mettersi in una posizione scomoda, davanti a una pagina bianca che si è riempita di tutto, quel tutto che era rimasto chiuso in cassetti che avevano accumulato troppa polvere e che, una volta aperti, hanno liberato un mondo che ancora pulsava di vita.