Ci sono incontri che sembrano disegnati dal destino. Mentre ero al Milk in San Salvario, martedì scorso, con di fronte, sul palco, Kazu Makino sulla sinistra, Amedeo Pace sulla destra, il suo gemello Simone Pace un po’ arretrato al centro, equidistante da entrambi, e le prime note di “Falling Man” hanno riempito la sala, ho pensato che ero tornato a Torino in tempo per ritrovare i Blonde Redhead. Mi sono ricordato che l’ultima volta che li avevo visti, schierati nella consolidata formazione in cui si esibiscono da ormai trent’anni, è stato sei anni fa qui a Torino, alle OGR. Erano parte di una rassegna in cui aveva suonato anche la loro fonte di ispirazione primaria degli esordi, Arto Lindsay, autore del brano che ha dato il nome al gruppo. Ricordo bene quella performance, anche perché ne avevo scritto qui. L’anno era il 2018, e quella sera ero insieme alla fotografa con cui spesso facevo squadra nei report di festival e concerti, Alessia Naccarato (di cui riprendiamo alcune foto qui; le altre sono di Alberto Chiariglioni, e ce le ha gentilmente concesse l’organizzazione), prima di partire per una serie di destinazioni che mi avrebbero allontanato dalla città, inconsapevoli degli eventi globali che avrebbero radicalmente riscritto il nostro modo di abitare gli spazi e di partecipare ai concerti.
Come quella sera, mi sono ritrovato circondato dalla folla festosa ed eccitata della città che per molti anni è stata il mio centro di gravità, poche settimane prima di lasciarla. Rivederli qui dunque mi è sembrato un evento simbolico. Se dovessi identificare una band che mi rappresenta, come immagino succeda a tanti, sarebbe questo terzetto che ha opposto una straordinaria longevità alla vita breve che spesso associamo alle band dell’indie. Li associo innanzitutto a una sera precedente, nell’estate 2001 a Napoli, quando non riuscendo a salire sul treno per Genova con cui avrei raggiunto un po’ di amici quella notte alla Diaz, avevo ripiegato su un concerto di uno sconosciuto trio di musica che per anni non sarei riuscito a classificare, che veniva direttamente da New York nonostante fosse composto da due gemelli italiani e una ragazza giapponese. La storia delle mie future diaspore, tra Bristol, Berlino e Long Beach, ma anche Lisbona, Kuala Lumpur e Taipei, sembra essere stata scritta quella sera.
Ma al di là della sovrapposizione di ricordi personali, poche cose sembrano cambiate questa sera. È cambiata poco Torino, se non nel livello di prezzi e degli affitti: i concerti più interessanti, per esempio, come in questo caso, continua ad organizzarli Gianluca Gozzi, nonostante l’amministrazione abbia scelto di affidare il ToDays a qualcun altro proprio in occasione della decima edizione del festival. I torinesi sembrano gli stessi di qualche anno fa, capaci di tirare fuori in un locale un calore che molti troverebbero insospettabile incontrandoli nella vita ordinaria, al punto da trasformare una performance partita un po’ tiepida in una delle esibizioni più intense a cui ho assistito, tra la decina di loro concerti che ho visto in varie città. Anche i Blonde Redhead in fondo sono gli stessi che ritroviamo nei filmati che è possibile recuperare su youtube, anche quelli più vecchi, nonostante i capelli dei fratelli Pace abbiano cambiato colore e Kazu sembri più impacciata. Si dispongono nello stesso triangolo e ripetono le stesse movenze, Kazu e Amedeo nei loro balletti minimali fatti di spostamenti misurati e gesti appena accennati, con le teste abbassate sulle chitarre, pacati anche nell’estensione delle voci, mentre Simone si scatena dietro di loro alternando tocchetti delicati a vibranti affondi di casa.
Il repertorio della serata è nel segno della continuità e in apparenza non riserva sorprese. Il tour è dedicato a Sit Down for Dinner, decimo album del gruppo, uscito nel 2023 dopo quasi dieci anni attesa da Barragán, che era preceduto nel 2014, per festeggiare il trentennale di attività del gruppo. Nell’ora e mezza di esibizione il trio sembra voler mantenere una certa coerenza di suono scegliendo accuratamente sedici tracce che alternano i pezzi del disco più recente, a una serie dei loro classici più pop ripresi dai precedenti Misery is a Butterfly (2004, forse in occasione del ventesimo annivarsario del disco) e dal successivo 23 (2007) che ne aveva esplorato alcune traiettorie sonore, prendendo le distanze non solo dalle più radicali sperimentazioni no-wave e noise-rock della prima fase ma anche dai suoni più ricercati dei due dischi più recenti, Penny Sparkle (2010) e appunto Barragán: non sarei sorpreso se un ascoltatore poco attento facesse fatica a distinguere i nuovi brani da quelli precedenti. Credo che si tratti di un progetto preciso che il gruppo porti avanti già dall’uscita del bell’EP 3 o’clok e dal concerto precedente alle OGR, in cui l’avevano suonato nella sua interezza.
Da Sit Down for Dinner si eseguono 8 brani su 11, preceduti da “Falling Man”, “Doll Is Mine” e “Elephant Woman”, che sono ripresi da Misery is a Butterfly, e “Dr. Strangeluv” da 23: il primo è “Snowman”, che apre il disco, quindi “Melody Experiment”, “Sit Down for Dinner, Pt. 1”, “Sit Down for Dinner, Pt. 2”, “Spring and by Summer Fall” e “Rest of Her Life” seguono in quest’ordine, intervallati da un altro pezzo da Misery is a Butterfly, “Maddening Cloud” e secondo una rigorosissima immetria, altri tre da 23, che includono appunto “23”, “SW” e “Spring and by Summer Fall”. Infine, gli ultimi tre brani nuovi sono eseguiti direttamente nell’encore, “Before”, “Not for Me” e “Kiss Her Kiss Her”. Ma il discorso che riguarda la scelta della scaletta vale solo per alcune delle date del tour, perché per esempio all’Alcatraz di Milano, la sera dopo, i brani nuovi sono diventati addirittura solo 5, integrati da “Here Sometimes” da Penny Sparkle e “Bipolar” da Fake is Just as Good, uno dei dischi della prima fase, che ricordo con emozione per aver aperto proprio il concerto alle OGR di sei anni fa, e che forse ci vuole dire qualcosa di esplicito. Addirittura solo tre, quattro pezzi nuovi al massimo restano nella scaletta che il gruppo porta e porterà nei festival, sui dieci in totale dell’intero set, come si è visto per esempio al Primavera, dove hanno inaugurato questo tour.
Se tutto sembra immutato, ho cominciato a chiedermi cosa c’è che è cambiato, e per altri versi, qual è il motivo per cui andiamo a vedere gruppi che abbiamo già ascoltato tante volte, in un periodo in cui il costo dei biglietti è aumentato notevolmente e in modo inversamente proporzionale alle nostre disponibilità economiche. Sono uscito dal Milk di Torino colto da umori contrastati, felice e perplesso, con in mente l’immagine di Kazu che avvia l’encore ringraziando il pubblico in italiano e poi si congeda scendendo dal palco e stringendo le mani delle persone tra le prime file, componendo un cuoricino con le dita, sinuosa e misteriosa come nelle immagini che le associo, e che ho sempre associato al Giappone. Ripenso ai discorsi fatti alcune settimane fa sulla morte dell’indie con Claudia Durastanti e Hamilton Santià in occasione della presentazione del suo libro Sotto traccia al Salone del Libro.
Allora mi sono chiesto se anche i Blonde Redhead non siano diventati una di quelle band che a sentirli oggi sembrano la cover-band di sè stessi. L’esempio che si era più citato a proposito è stato quello degli Strokes: ho seguito la prima parte del concerto con quest’idea in mente, poi piano piano, quando hanno cominciato a scaldarsi nella seconda parte, mi sono convinto che non è il loro caso, che c’è ancora qualcosa di genuino che esce quando centrano la serata giusta. Che i loro live suonano come loro live, hanno conservato quelle atmosfere rarefatte eppure intense, quei colori che si traducono in suoni dalle tinte tenui ma che hanno un’iridescenza tutta loro.
Ma all’uscita di questo disco, dopo dieci anni di iato, ho avuto la medesima impressione: nonostante le recensioni positive, Sit Down for Dinner mi ha lasciato piuttosto tiepido, seguito al disco precedente che pure ai tempi mi aveva lasciato tiepido. Anzi, proprio le recensioni positive mi hanno confermato l’idea di un’operazione che si risolve pedissequamente nella ricerca della nostalgia, mirato a richiamare il pubblico di ieri piuttosto che cercare idee nuove, e l’età media del pubblico in sala ne è stata conferma. Eppure tra di loro c’erano anche ascoltatori più giovani, che probabilmente vedevano i Blonde Redhead per la prima volta, e allora ho pensato che vale la pena chiedersi se questi ragazzi non meritino l’occasione di ascoltare anche loro pezzi come “Elephant Woman” e “Dr. Strangeluv” ripetuti ormai migliaia di volte piuttosto che dei rifacimenti postumi che ne riprendano alcune sonorità ma ne abbiano perso la freschezza e la profondità. In fondo, mi ero subito innamorato anche io di 3 O’Clock per motivi affini, un EP composto da quattro brani molto belli che abbastanza esplicitamente annunciavano il desiderio di tornare a cercare le sonorità di Misery is Butterfly, oltre che di Melodies of Certain Damaged Lemon e 23, una trilogia divenuta imprescindibile a di là delle evoluzioni del gruppo: avevo apprezzato la decisione di cambiare rotta rispetto ai lavori più recenti, che li avevano portati altrove, anche se significava riportarli indietro.
L’altro fattore di cui tenere conto – e ne tiene conto anche Stuart Berman su Pitchfork – è che Seat Down for Dinner risuona di ripetizioni perché è un disco che descrive, a seconda delle posizioni da cui lo si ascolta, la possibile rinascita del gruppo o la sua fine, associata anche a dichiarazioni di Makino in occasione dell’uscita del suo primo disco solista nel 2019, Adult Baby, che annunciava che probabilmente il percorso fatto insieme era prossimo alla sua conclusione. Anche la traccia finale, la bellissima “Via Savona”, una chiusura che riprende “For the Damaged Coda” di Melodies, resa celebre a sorpresa, a vent’anni dall’uscita, dal cartoon Rick&Morty, può essere letta come il congedo di una storia durata trent’anni. Niente ti rende più amato del momento in cui annunci la tua uscita di scena.
Sono tanti i pensieri che vengono in mente, insomma, quando ti confronti con un gruppo che rappresenta il tuo passato e che ti ha accompagnato dall’adolescenza al tuo quarantacinquesimo compleanno tornando ripetutamente a interrogarti ogni volta che torni a vederli e che li trovi, non senza sorpresa, belli e in forma. Il tour estivo dei Blond Redhead, inaugurato al Primavera Sound di Barcellona il 30 maggio e proseguito in con queste tre date italiane a Ferrara, Torino e Milano, si prevede lungo e ricco, articolandosi in una ventina di serate perlopiù in Europa fino alla fine di agosto. Vi consiglio di andarli a vedere e farvene un’opinione anche voi, che sarei davvero curioso di condividere.
Se poi avete vi siete incuriositi e volete approfondire altri aspetti dei Blonde Redhead e della loro storia italo-nippo-americana, vi rimando al mio blog bilingue multipleitaly(s), dove mi occupo più nello specifico di argomenti legati agli italiani in transito.