Tutti noi non possiamo non pensare alla morte. Ma c’è una differenza: uno che fa il mio mestiere ha con la morte un rapporto di confidenza più stretto. Un rapporto privilegiato. Ed è un rapporto che genera rispetto, e anche paura. Ma in me c’è una paura perfino più grande: quella di farmi male sul circuito, quella di fare male ad altri, di deformare la continuità della vita.
«Alain, mi manchi» – sono le ultime parole pubbliche pronunciate da Ayrton Senna la mattina del 1° maggio del 1994. Le dedica ad Alain Prost, ritiratosi l’anno prima, ora commentatore della tv francese Tf1. Ayrton e Alain si rivedono nel paddock, quindi Prost va ancora nel box della Williams per un saluto. Non possono sapere che sarà l’ultimo. Senna è tormentato, molto più della sua natura abituale: l’amore con Adriane Galisteu osteggiato dalla potente famiglia di lui, i problemi con la sua monoposto e le preoccupazioni per il futuro, l’angoscia per un weekend già drammatico che ha visto la morte del pilota Roland Ratzenberger – Ayrton ha già messo nella sua Williams la bandiera austriaca per omaggiarlo al traguardo – e l’incidente all’amico Barrichello. Prost accanto a lui. Se un extraterrestre si fosse trovato a passare sul circuito di Imola, quella mattina, avrebbe pensato di aver visto due grandi amici abbracciarsi. Scendi giù, alieno, che ti racconto una storia.
Oggi è, forse, difficile da immaginare, eppure un tempo la Formula Uno in Italia era capace di tenere incollati allo schermo, ogni domenica, milioni di appassionati. Non solo negli anni dei trionfi della Ferrari e di Michael Schumacher, ma in quelli immediatamente precedenti all’esordio e ai conseguenti successi del leggendario pilota di Hürth.
Uno sport che, certamente, anche allora era strettamente legato alle prestazioni delle macchine – come anche da una buona dose di giochi di potere e misfatti annessi – ma che in quei decenni, quando ancora l’elettronica non aveva avuto il sopravvento sulla meccanica (comincerà proprio con i primi, dubbi successi di Schumacher in Benetton) riusciva a mettere ancora al centro della sua rappresentazione la natura dei piloti e le loro gesta d’eroi moderni, cosicché le domeniche pomeriggio si tingevano di sfide epiche dominate dal talento, dalle gomme e da benzine capaci di dare fuoco a scontri indimenticabili.
Di quel decennio, a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, indiscussi protagonisti furono Ayrton Senna e Alain Prost, la cui rivalità è al centro del libro Senna e Prost. La sfida infinita, scritto da Umberto Zapelloni e pubblicato dalla casa editrice 66thand2nd.
Senna e Prost. È difficile immaginare due piloti – e due uomini – più diversi. Alain Prost, classe 1955, era più grande di Senna di cinque anni, non pochissimi dentro le logiche di ingresso nella Formula 1 di quegli anni. Quando il francese vince il suo primo mondiale nel 1985, cinque anni dopo il suo esordio, seguito poi a ruota dal titolo che conquisterà nella stagione 1986, Senna è ancora all’inizio del suo percorso nella massima serie automobilistica. Dopo aver gareggiato un anno con la Toleman nel 1984, è nel periodo del suo triennio con la scuderia Lotus, che gli consentirà di mettersi in mostra come uno dei più grandi talenti mai affacciatosi nel mondo delle corse automobilistiche, dopo quanto già mostrato nei kart e nelle serie minori.
Eppure, Ayrton Senna, come ogni pilota, sa che il solo talento non può comunque bastare per raggiungere il titolo cui ambisce – quello di Campione del Mondo – senza che ci sia a supportarlo una vettura all’altezza delle sue capacità. Il mondo dei motori è la sintesi perfetta tra macchina e pilota e quel giovane ragazzo di San Paolo sa già – in una sorta di consapevole quanto folle predestinazione – che quella macchina appartiene alla stessa scuderia della monoposto che già guida Alain Prost.
Così, trascorso il mondiale del 1987 che vede interrompersi dopo due titoli la striscia positiva di Prost costretto, quell’anno a cedere il Campionato a un altro brasiliano – Nelson Piquet alla guida della Williams – è il momento, l’anno successivo, per Ayrton di approdare alla sua terza scuderia inglese nel giro di pochissimi anni.
Prost e Senna. Il pilota più forte del mondo e quello già consapevole che ne prenderà il posto, a competere nella stessa squadra. Non che le frizioni non fossero già iniziate tra i due, ma Prost è del tutto convinto di poter tenere a freno il pilota dallo sguardo triste. È, del resto, una sfida tanto ambiziosa quanto affascinante anche per Ron Dennis che della McLaren è – e resterà a lungo – presidente e deus ex machina. Dennis sa il potenziale che ha in squadra – chi può vantare due piloti di quel calibro? – ma da uomo attento ne conosce anche la possibile infiammabilità. Certo, McLaren Racing vincerà il titolo costruttori e nessuno può nutrire dubbi a inizio della stagione 1988 che uno dei suoi due piloti conquisterà il titolo di Campione del Mondo. Ma nemmeno Dennis sa davvero che, con l’arrivo di Senna, sta per deflagrare una delle rivalità più grandi e crude che la storia dello Sport ricordi.
La Formula Uno di quegli anni era una sorta di parente lontana, selvaggia e incontrollabile, di quella odierna. Ieri, molto più che oggi, andare a quasi 300 km/h senza l’attenzione contemporanea tanto per le condizioni di sicurezza delle monoposto che per quelle delle piste, era una sorta di seduta di psicoterapia: impossibile nascondersi dietro un casco o nello spazio angusto di un abitacolo, ciò che si era diventava palese, al mondo, certo, ma persino a sé stessi. Quando il sette volte campione del mondo Lewis Hamilton si troverà a guidare molti anni dopo la McLaren di quegli anni, la mitica MP4/4, dichiarerà che si doveva «essere pazzi per guidare negli anni ottanta».
La situazione all’inizio del 1988 è la seguente: Prost ha trentatré anni e corre in F1 da otto, Senna ne ha ventotto e si appresta a iniziare il suo quinto anno.
Prost è chiamato – mica a caso – “Il Professore”, per il suo modo di approcciarsi alle corse che è ormai sempre più ragionato e calcolato. Il francese non ha alcuna intenzione di rischiare qualcosa oltre il dovuto, si muove sempre ben tenendo in mente i meccanismi delle classifiche, sa sollevare il piede dall’acceleratore, conosce il valore di due punti in meno se questo significa non rischiare un fuori pista. Ma è anche un calcolo, un principio di razionalità che il francese può permettersi in funzione della sua seconda natura: Prost con la sua faccia sghemba da burattino è un Cardinale Richelieu che, fuori dalla pista, si dedica a uno sport dove davvero non ha rivali, occupando uno spazio nel quale è un maestro nel gestire rapporti politici che si spingono ai colleghi, ai Team Manager di scuderie rivali fino ad arrivare ai vertici della Federazione.
Del resto, dall’altra parte della torre, al vertice della piramide c’è un altro francese, a suo modo protagonista di primo piano nella rivalità tra i due piloti nemici.
In quegli anni a gestire il circo c’è lui: Jean-Marie Balestre, per anni a capo della Federazione Automobilistica Internazionale. Un uomo dal passato misterioso: nel 1942, appena ventenne, entra nelle Nationalsozialistische Kraftfahrkorps (NSKK, unità naziste di forze motorizzate) e, nello stesso anno, lancia il giornale Jeune Force de France, collaborando anche a Devenir, giornale legato alle SS francesi. Finita la Guerra, Balestre racconterà di essere un membro della Resistenza, un agente segreto, insomma. Pur tra qualche dubbio – Balestre non potrà mai dimostrarlo – la Légion d’honneur consegnatagli nel 1968 mette fine alle polemiche.
Balestre è un uomo forte e duro. Non certo un giudice super partes. E durante la sua presidenza – di fatto una sorta di monarchia – farà di tutto per favorire Prost: per simpatia verso il francese, per amicizia dichiarata, per una sorta di contiguità di ideali e per un’idiosincrasia assoluta nei riguardi del giovane talento brasiliano del quale prova a frenare la pur inevitabile ascesa.
Un pilota rischia sempre. Essere un pilota significa che stai correndo contro altri piloti. Se vedi un varco e non provi a infilarti significa che non sei più un pilota. Un pilota corre per vincere. La mia motivazione principale è la vittoria.
Perché Senna, in termini di guida, di personalità e – verrebbe da dire di concezione del mondo – si colloca all’estremo opposto dello spettro. Non difetta in alcun modo rispetto all’intelligenza dell’ormai compagno di scuderia ma al talento – immenso – affianca un carattere sanguigno: è un maverick ossessionato dalla vittoria a ogni costo, un folle in cristo, una via di mezzo tra l’ascetismo e il rigore di un samurai (non a caso, nella guerra con l’intero mondo della F1 avrà sempre dalla sua l’appoggio dei giapponesi della Honda). A differenza di Prost, il brasiliano non sa cosa significhi rallentare in pista, non sa o non vuole fare calcoli, è una mina vagante di coraggio, ostentazione e impudenza: se esiste anche la minima possibilità di passare un avversario, Senna in quel corridoio strettissimo vede unicamente l’opportunità di una vittoria.
Il Gran Premio di Suzuka, proprio in Giappone, diventa così – anno dopo anno – non solo il teatro preferito dei loro scontri, ma di fatto il luogo del delitto dove nel 1989 e nel 1990 si consuma la rottura definitiva tra i due piloti con Balestre prima a squalificare Senna regalando il mondiale dell’89 al francese, quindi fermo nel non intervenire, l’anno successivo, quando si manifesta la grande vendetta del brasiliano che conquista il suo primo titolo proprio durante il Gran Premio del Giappone – verso cui il libro di Zapelloni sembra convergere come verso un climax.
Senna e Prost. La sfida infinita è un racconto costruito con la tenacia asciutta di un diario di bordo che prova a raccontare i fatti. A distanza ormai di trent’anni dall’incidente alla curva del Tamburello a Imola che pose fine alla vita del pilota brasiliano, Zapelloni (in passato inviato de «il Giornale» sui circuiti del Mondiale di Formula 1, responsabile della redazione Sport e Motori al «Corriere della Sera» e vicedirettore della «Gazzetta dello Sport» che oggi collabora coi principali giornali sportivi e cura un suo blog personale) ha la possibilità di raccontare – avendo dalla sua il vantaggio del filtro del tempo – una storia dal finale tragico, senza concedere alcuno sconto ai difetti degli uomini, esaltando capacità e talento dei piloti che sono stati in pista.
Se il bellissimo Suite 200. L’ultima notte di Ayrton Senna di Giorgio Terruzzi era un atto d’amore che s’avviluppava agli stessi nervi del pilota brasiliano, il racconto della sfida con Prost che Zapelloni tratteggia, sceglie una cifra diversa togliendo polvere a un momento magico di quello sport attraverso la cronaca dei giorni, raccogliendo resoconti, testimonianze, riferimenti per delineare una sorta di – per quanto impossibile – oggettività in una parabola tra due modi diversi di intendere le corse e la vita.
Il finale, amaro, per le ragioni che tutti conosciamo si ferma però un attimo prima. Ed è una curva inaspettata. Quando nel 1993 Alain Prost si aggiudica quello che sarà il suo quarto Titolo Piloti con la Williams Renault che lascerà proprio a Senna l’anno successivo – è dal 1990, del resto, che la convivenza si è fatta impossibile e il francese passerà anche per due anni in Ferrari – il dietro le quinte racconterà una storia diversa.
Nel primo inverno in cui sa che non lo avrà più come avversario, Senna chiede a Julian Jakobi, manager che aveva lavorato con entrambi, il numero di Alain. Per diversi mesi parlano di vita privata – sarà Prost a raccontarlo – di donne, famiglia e figli, della sicurezza in pista che per Senna è ormai oggetto di una battaglia quotidiana, ma sono telefonate in cui il rivale di sempre prova anche a convincerlo a ritornare in pista.
Dentro la riconciliazione tra i due piloti ecco che Zapelloni intravede una strada per tenere uniti due modi e due mondi profondamente differenti di intendere lo sport, capaci da un lato di polarizzare tifo e dibattito, dall’altro, in funzione di quella rivalità intrisa di rispetto per il valore tecnico dell’altro, di diventare sprono costante, sfida continua per il miglioramento di ciascun pilota. Ecco allora che, nel racconto di un agonismo che raggiunse vertici davvero pericolosissimi, il racconto di Zapelloni restituisce il senso ultimo dello sport e di una rivalità impressionante capace di celare dentro di sé i semi di un’amicizia che ebbe il solo tempo di una brevissima primavera.