Quali sono le dinamiche all’interno di un microcosmo – l’ultimo tra i pochi – dominato per sua natura da una gerarchia verticale fortissima? Che cosa accade se al vertice di quella piramide c’è una donna? Qual è il limite possibile – se vi è ancora una possibilità – che permette di separare lo spazio tra il carisma che si esercita per una sorta di diritto acquisito e la prevaricazione che può emergere dai propri comportamenti in virtù del proprio potere?
Sono alcune, queste, le domande principali al centro di Tàr di Todd Field attore, sceneggiatore e regista – parsimonioso: tre film in oltre vent’anni – presentato il 1º settembre 2022 alla79ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, interpretato da una straordinaria Cate Blanchett, vincitrice – con evidente merito – della Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile.
Tàr è un film che appare fin da subito come un oggetto affascinante – e che sa forse anche troppo spesso di esserlo – e che prova – nella forma – ad avvolgere il pubblico nella stessa atmosfera cui la sua protagonista dà corpo scena dopo scena.
Al centro della storia c’è Lydia Tàr, direttrice d’orchestra cinquantenne che ha raggiunto ogni massimo risultato possibile, maestro – o maestra – del podio, allieva prediletta di Leonard Bernstein, come lui già direttrice della New York Philharmonic Orchestra e delle principali orchestre statunitensi, direttore stabile – prima donna – dei Berliner Philharmoniker (insieme ai Wiener la più prestigiosa orchestra al mondo).
Tutto in Tàr è una sua celebrazione. Dopo i titoli di testa, un montaggio a un tempo serrato e calmo ci introduce nello spazio della sua vita. Ed è un mondo quasi aristocratico che richiama per più di un’assonanza alcune scene da Il Filo Nascosto di Paul Thomas Anderson. Ogni aspetto è curato nel minimo dettaglio: le rilegature delle partiture, i vinili delle principali edizioni delle sinfonie di Mahler, gli abiti di sartoria, la preparazione di un incontro moderato – manco a dirlo – da un giornalista del New Yorker. Tutto è perfetto; Lydia Tàr è l’emblema di certo successo da sinistra a stelle e strisce per la quale Tom Wolfe coniò un termine ormai odioso – usato proprio in un lunghissimo reportage su una festa a casa Bernstein per raccogliere fondi a favore delle Pantere Nere – una donna che eccelle nel suo campo, che vive con la sua compagna – primo violino dei Berliner (la tedesca Nina Hoss già protagonista di Barbara di Christian Petzold) – e con lei ha una figlia piccola, Petra.
Un trionfo dietro l’altro, un interesse ampio e documentato nella musica etnoantropologica, l’intero ciclo delle sinfonie mahleriane da incidere con una sola orchestra come obiettivo professionale a coronamento di un’intera vita – e naturale punto d’approdo del film – una casa stupenda con librerie, pianoforti, pareti in calcestruzzo a vista, senza porte. Un loft tanto teutonico quanto newyorchese, da classe più che agiata: un lusso misurato da vivere senza sensi di colpa in virtù di una bellezza mai ostentata e sorretta dalla grandezza del gusto. Un appartamento coniugale, che sta lì come ogni angolo dell’esistenza di Lydia a ricordarne il fasto e i vertici raggiunti cui fa da contraltare una piccola abitazione quasi bohémienne dove suona il pianoforte e compone, riflette e vive la dimensione autentica di un’esistenza consacrata completamente alla musica.
Eppure, a poco a poco il pubblico in sala si accorgerà che dietro il suono scintillante della sua orchestra si nasconde un rumore di fondo, una distorsione a partire dalle strane mail che arrivano alla sua assistente personale (la francese Noémie Merlant vista in Parigi, 13Arr. di Jacques Audiard e ancora prima in Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma) e che scena dopo scena farà crollare ogni certezza acquisita nella vita privata di Lydia e nella carriera sfolgorante della direttrice Tàr.
C’è qualcosa di antico e moderno in Tàr ed è il tratto migliore di un film che, nello stesso tempo in cui ti incolla con la forza di una sceneggiatura serrata e brillante, ti costringe a riflettere, a pensare prima ancora di sentire o di scegliere se stare davvero da una parte. Un film in cui coesistono la perfezione formale che sorregge il movimento delle sequenze e gli strappi di un racconto che, non solo procede per piccoli salti quantici, ma – soprattutto – è abile nel tenere fuori dalle inquadrature, come dallo svolgersi degli eventi, tutte le piccole, grandi fratture che porteranno alla sua – inevitabile? – caduta.
In quasi due ore e quaranta minuti, Tàr non mostra cedimenti, tantomeno alcuna volontà di inseguire un successo facile. Del resto, la musica classica – e certa musica classica in maniera particolare – rappresenta un rimosso finanche nella cultura occidentale, presente oramai solo lì dove serve a un riconoscimento, una legittimazione – talvolta politica come nelle appariscenti occasioni di gala che offrono le prime – avulsa com’è da qualunque contesto educativo o culturale.
E Todd Field che di Tàr è sceneggiatore, ancor prima che regista, non dà in alcun modo al suo pubblico un facile appiglio. Siamo lontani da un film come Il concerto di Radu Mihăileanu in cui la classica – con il ben più accessibile Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 35 di Pëtr Čajkovskij – funzionava solo da canovaccio per una storia a carattere sentimentale. Tàr, attraverso dialoghi brillanti, talvolta grotteschi, certamente sardonici si muove con tempo asciutto, secco lungo un crinale sotterraneo decifrabile quasi esclusivamente dagli appassionati: se Leonard Bernstein è certamente nome noto – per il pubblico della musica sinfonica e per quello americano senza dubbio – meno intellegibili restano evidentemente i tanti riferimenti a un universo anche femminile cui il mondo della classica moltissimo deve (Nadia Boulanger, Antonia Brico, Marin Alsop, JoAnn Falletta, Nathalie Stutzmann).
Anche l’oggetto del desiderio di Lydia, la giovane musicista Olga – la violoncellista anglo tedesca Sophie Kauer – entra in scena portando il Concerto per violoncello in mi minore Op. 85 di Edward Elgar, non propriamente una musica d’attesa dei centralini quotidiani. E anche quando ci si affida al Mahler più noto – quello dell’Adagietto della Quinta Sinfonia – lo si fa più per una sorta di eredità cinematografica – è il tema dominante, il leitmotiv di Morte a Venezia di Luchino Visconti.
Al contempo la storia che Tàr racconta resta godibilissima di là dal gioco continuo di rimandi e di specchi con cui Todd dissemina il campo della sua analisi.
Riflessione sul potere, sui suoi limiti e sulle sue storture, Tàr è – evidentemente – pur nelle sue diverse stratificazioni di lettura – anche un film che sfida certe derive del movimento del #meToo e i suoi lasciti. Non naturalmente come difesa di chi si è macchiato à la Weinstein di abusi e reati evidenti, ma a quel clima da nuovo maccartismo pronto ad attaccare non solo gli eventuali colpevoli ma chiunque non sia disposto ad allinearsi – per principio o per opportunismo – alla nuova ondata di puritanesimo.
In una scena chiave del film, al cospetto di un vecchio direttore d’orchestra, un’incredula Cate Blanchett gli domanda se davvero pensa sia lecito paragonare le possibili contiguità col nazismo – che costarono una buona parte di carriera a Wilhelm Furtwängler – alle condotte sessualmente disinvolte di lei stessa e di altri direttori d’orchestra (il riferimento esplicito è agli allontamenti che hanno riguardato due altri maestri del podio: l’americano James Levine e lo svizzero Charles Dutoit).
Tàr non giudica e non assolve, e qui sta il suo merito. Assume sulle sue spalle il peso di un ritratto: quello di una donna sul limitare del genio disposta à la Raskolnikov a spingersi di là dal bene e del male per ottenere tutto ciò che desidera. Cate Blanchett dà così vita a una creatura complessa e affascinante, se si vuole, a una perdente/sconfitta dei tempi contemporanei, a una resistente di un tempo perduto – nel bene e nel male – che pone lo spettatore davanti al dilemma della scelta tra il genio artistico umanamente imperfetto, divorato da passioni e deragliamenti umani troppo umani e – come nell’epilogo – meri burocrati del suono, nuovi vincitori sulla base non di un talento cristallino ma di una diligente morale meschina e piccina dietro cui celare scarsi meriti musicali.
Tàr è, così, un’opera che pone domande e non dà risposte, non per ignavia: in una filigrana nemmeno troppo nascosta è evidente il pensiero di Field. Ma lo stesso regista – nell’affidare la dimensione narrativa a una protagonista con un carattere ostico, spigoloso, autoritario, talvolta manipolatorio e aggressivo con la quale diventa progressivamente sempre più difficile empatizzare – costruisce un campo di discussione mai assolutorio, mai netto e per questo onesto e stimolante.
Come a voler suggerire la necessità di affrontare un tema – da qualunque prospettiva lo si voglia guardare comunque complesso – con nuance molto più sfumate rispetto a una suddivisione manichea che ormai troppo spesso sembra aver soffocato ogni tentativo di discussione critica.
Quella di Lydia Tàr somiglia a una caduta degli dei – Gotterdammerung – rovinosa quanto attesa, probabilmente inevitabile. La sua parabola artistica, quel tipo di parabola artistica che se da un lato configura l’umiltà nei confronti dello spartito – Lydia custodisce gelosamente i volumi delle sinfonie, piene di appunti, segni dell’unica strada possibile allo svelamento del testo, e soltanto successivamente della conoscenza di sé – dall’altro esplode in una sorta di distacco rispetto alla corte dei miracoli che la circonda, distruggendo l’idea di un direttore primus inter pares verso la deriva di un despota assoluto.
Ne viene fuori il ritratto affascinante che nel viso e nel corpo di una sola donna – e la capacità di occupare lo spazio col corpo è una delle doti migliori d’attrice di Cate Blanchett – sintetizza tutti coloro i quali, lì sul podio, hanno provato ad alimentare la sacralità di un rito anche nell’epoca – ormai lunghissima – della riproducibilità tecnica.
Così come vuole in maniera spesso violenta tenere fuori dalla partitura ogni possibile coinvolgimento con dinamiche del presente – ironica e grottesca la scena in cui smonta la superficialità con cui un giovane violinista afroamericano della Juillard si approccia con disprezzo al Bach cis, bianco e misogino – allo stesso tempo Lydia Tàr sembra intimamente convinta di poter – a sua volta con disprezzo – accantonare le donne che ha sedotto o amato in virtù di una sottomissione alla sua arte che la rende, ai suoi occhi intoccabile.
In scene che restano ricche di sfumature e di riflessioni sulla musica e sul Tempo e sul valore dell’arte, Tàr prova a non dare risposte secche; forse perché non è di perentorietà che il presente ha bisogno ma di complessità. Ce lo ricorda un film che come ha detto la stessa Blanchett “è americano ma ha la sensibilità di un film europeo”.