Lo scorso 14 ottobre nel variegato paesaggio del pop nostrano ha fatto la sua colossale apparizione “Homunculus”, ultimo disco o meglio opera musicale di Capibara, uscito per La Tempesta Dischi. Homunculus, anticipato l’anno scorso dall’EP “Homunculus: Genesi”, è il terzo album per il producer romano e, come i suoi altri lavori, Gonzo (2015) e Omnia (2018), segna un momento particolare, forse unico per la profondità e la varietà di linguaggio, in questo nostro panorama musicale grigio e sempre più appiattito lungo le direttrici omologanti dell’industria e del mercato.
Negli anni della massima velocità ed esperibilità del contenuto artistico e della minima soglia dell’attenzione da parte del fruitore, Capibara e La Tempesta scelgono coraggiosamente di imboccare la strada meno battuta e ci propongono un disco, o meglio un doppio disco, di ben 30 tracce e dalla durata eccezionale di 2 ore e 20 minuti. E pensate che a un regista come Villeneuve sono state rivolte “critiche” per la lunghezza del suo Dune (2 ore e 38 minuti di film).
Eppure, Homunculus non è un lavoro colossale soltanto per la sua estensione, o perché l’artwork in copertina ritrae il produttore nelle vesti del gigante corazzato dell’Attacco dei Giganti. La grandezza di questo doppio disco sta soprattutto nella riflessione da cui nasce, e a cui porta, e nella maestria con cui l’autore è stato capace di amalgamare la sua straripante materia. L’album si presenta come una lunga carrellata di tracce, o episodi, in cui suoni dello sci-fi anime giapponese, synth lucidi e striduli gettano sprazzi di luce, dialogando come potrebbe fare un’enorme coscienza cibernetica, su di un abisso di oscurità fatto di ritmiche danzerecce e convulse, che affondano le radici nella tradizione techno, trance, dub e bass.
Ho avuto il piacere di parlarne con lo stesso Luca Albino, aka Capibara.
Ciao, Luca, inizierei proprio dal titolo: cos’è un homunculus?
L’homunculus è una creatura leggendaria dell’alchimia medievale, quel piccolo mostriciattolo antropomorfo creato in vitro dall’alchimista che vuole, imitando Dio, replicare la creazione umana. L’homunculus è un essere artificiale, come un clone o come il mostro di Frankenstein, composto a partire da un miscuglio di materia organica ed inorganica, che non dovrebbe poter esister, ma che dall’interno dell’ampolla ci dice che, invece, esiste eccome. L’homunculus è, quindi, una forma di vita alternativa e per questo perturbante agli occhi degli uomini, una forma umana ibrida e incompleta, senziente e cosciente di non essere umano fino in fondo. In questo senso l’homunculus diventa il simbolo di tutti noi esseri umani, che siamo altrettanto composti dai più disparati frammenti di cose che non siamo in grado di cogliere e conoscere fino in fondo. Uno specchio in cui specchiarsi, insomma.
Cos’è invece Homunculus?
Homunculus è una riflessione sulla volontà e sul potere, inteso come possibilità di fare o di essere. Noi umani, esattamente come gli homuncoli, siamo inchiodati alla contingenza di quello che siamo, di quello che la realtà è. Certo, noi a differenza degli homunculi possediamo la coscienza, il libero arbitrio, e quindi la possibilità di scegliere, ma a ben guardare anche questi concetti che stanno alla base della libertà umana sono molto legati alla contingenza.
In un certo senso, l’homunculus sta all’essere umano come l’essere umano sta a Dio. Dio creatore, onnipotente ed onnipresente, forse l’unico essere libero dalla contingenza.
Esatto. Noi siamo creature libere in un range di cose possibili: dal contesto sociale geografico e storico in cui nasciamo, alle esperienze che facciamo e alle persone che conosciamo nella vita, noi siamo confinati ad una serie di possibilità o impossibilità, di strade percorribili o solo immaginabili. E proprio per questa nostra finitezza contingente ci sentiamo spesso incompleti o non del tutto padroni di noi stessi, e ci ritroviamo a sentirci spettatori delle vite nostre ed altrui o ad immaginarcene altre diverse, esattamente come quell’esserino che guarda il mondo “vero” da dietro il vetro dell’ampolla.
Allo stesso tempo, però, anche la formula inversa, l’essere umano sta all’homunculus come Dio sta all’uomo, può essere valida.
Certo, è l’altra faccia della medaglia. L’uomo è sia creatura che creatore: l’alchimia, ma anche ogni gesto di creazione, è una sorta di sfida nei confronti di Dio, della Natura. Ma anche in questo caso ritorna il problema della contingenza: se è vero che la natura dell’essere umano è creatrice, lo è solo in un mondo che già esiste, che nelle sue parti costituisce quel range d’azione di cui parlavo prima. L’uomo non crea dal nulla nel vuoto, ma crea sempre a partire da qualcosa che c’è e nel pieno della vita.
Spostando il discorso dal piano filosofico a quello estetico, è praticamente quello che hai fatto tu con questo disco: mi sembra che tu abbia preso ritmiche e suoni dall’elettronica dance (dalla techno, dalla trance, dalla dub e dalla bass music, e addirittura dalla phonk) e ci abbia montato sopra synth e sample giapponesi dal mondo anime, creando un misto di luce e oscurità, di durezza e liquidità, molto affascinante.
Diciamo che io vedo la realtà come una somma di esperienze (i famosi pezzi di cose disparate) nostre ed altrui con cui fare i conti. Nel senso che io praticamente ora non ascolto musica elettronica, però la techno, la trap, esistono: quando esci, o vai a ballare o parli con un amico, o semplicemente vivi, ci entri in contatto per forza. Quindi questi generi, o aspetti della realtà, li ho utilizzati come strumenti, come tante mini-colonne sonore con cui raccontare delle storie. Poi, in realtà, i suoni, è vero, vengono da lì, ma per le ritmiche mi sono ispirato al metal, al doppio kick degli Slipknot e al wall of sound dei Rammstein. Comunque, nel disco ci sono anche tante influenze dagli Arcade Fire, da Battiato, da Bowie. I sample dagli anime, invece, sono stati presi in lingua originale e modificati, appunto, per creare quell’effetto di riverbero, di sogno, come se provenissero da un’altra dimensione, da un’altra realtà, che è ciò dà il suo senso al disco. Come se fossero un po’ una voce inconscia, la voce dell’inconscio.
Una vera creazione alchemica. Spiegami meglio le influenze meno evidenti di Arcade Fire, Battiato e Bowie.
Allora per gli Arcade Fire ho una vera passione, mi piace tantissimo quell’atmosfera da ballata romantica e allo stesso tempo disillusa verso quel mondo americano/folk che ormai non esiste più. Mentre Battiato e Bowie per me sono stati dei grandissimi pionieri: io apprezzo molto di più chi sperimenta e, anche a costo di sbagliare, non fa mai la stessa cosa due volte, rispetto ai perfetti esecutori. Penso che, purtroppo, ora ci siano molti più dei secondi, come se mancasse la voglia o il coraggio di fare qualcosa di nuovo e di diverso. È più facile riproporre qualcosa che si sa già funzionare e adagiarvisi, col rischio di appiattirsi, o sfruttarla finché rende. Io preferisco muovermi dove c’è il vuoto, anche perché quello che sembra andare, che sembra solido per via dei numeri, poi nel concreto dei concerti, dei palazzetti, si rivela inconsistente.
Cosa intendi?
Intendo che il pubblico non risponde alla chiamata dell’artista o lo fischia. C’è uno scollamento fra la musica dei social, delle playlist, gonfiata dai numeri, e quella di chi suona, di chi va nei locali o ai concerti. La prima detta il mercato ma non dovrebbe, è una sorta di homunculus, una creazione in vitro, artificiale, che non può reggere il confronto con quella, passami il termine, “vera”, quella che nasce dai rapporti diretti fra persone e realtà. Molti locali, che sono gli spazi dove nascono musica e passione, stanno chiudendo o hanno già chiuso: a Roma, ma temo in tutta Italia, c’è una moria di luoghi dedicati all’arte e alla cultura. E questo porta ad un vuoto che aggrava l’ignoranza già diffusissima.
Da cosa pensi dipenda questo fenomeno?
È un circolo vizioso di cui la politica, anche e soprattutto la politica di sinistra, è responsabile: c’è un’incuria sistematica nei confronti dell’arte e della cultura, quasi che questi siano aspetti marginali, se non proprio superflui della vita. Quando è chiaro che non sia così: la vita non può essere fatta di soli lavoro e aperitivi. Ormai le nostre città si stanno trasformando in asettiche mangiatoie o in generici e anonimi centri commerciali. Per fare un esempio, se io sono diventato artista è perché nella mia vita, quando ero più piccolo, sono stato influenzato in quella direzione, da persone, da luoghi, da situazioni, che ora non trovano più spazio, quando non vengono direttamente attaccati.