“PUNK IS NOT DEAD”: una frase fastidiosa quanto inflazionata. Ne sono state stampate a bizzeffe di magliette, spillette e patch per i giubbini con questo slogan. Un’espressione ormai vuota che ancora ci capita di incontrare sulla bacheca facebook di qualche nostalgico o sullo zainetto di qualche giovincello che ha appena sentito per la prima volta God Save The Queen; un movimento, un rancore e soprattutto un modo di vivere sublimato in due righe, inglobato dalla cultura pop e impacchettato per poter essere venduto come una moda qualunque.
Certo, ormai tutti sappiamo che i Sex Pistols erano una truffa e i Ramones una sorta di boy-band, ma non conosciamo l’attaccamento e la voglia di ribellione di una miriade di giovani che da un giorno all’altro hanno avuto il coraggio e la voce per urlarsi in faccia la propria rabbia; e in ogni caso c’erano anche i Clash, politicamente impegnati e ineccepibili, che hanno fatto scuola per le generazioni a seguire. Il punto però è un altro: questo punk è morto, mutato e non più spendibile oggi poiché congelato nei suoi stilemi più superficiali: creste, chiodi e spille da balia. Non tutto è perduto però, il modo di vestire e suonare potrà anche cambiare e modificarsi a seconda delle influenze ma la sfiducia, il risentimento e la voglia di non allinearsi sono sempre quelli, di generazione in generazione.
Il 2018, che – tra l’altro – è stato un anno ricchissimo di motivi per essere incazzati, ci ha regalato perle rare di un punk fresco, ricco di contenuti e di influenze diverse, che si adatta alla perfezione a noi figli del nostro tempo a cui un po’ di cose non vanno proprio giù, mettendo voglia di sputare fuori tutto. Abbiamo scelto di conseguenza i cinque album punk usciti quest’anno che meglio di tutti esprimono il disagio che purtroppo non ci lasceremo alle spalle con l’anno passato.
5 Act of Fear and Love – Slaves
Gli Slaves sono i veterani della nuova scena punk. Questo è il loro terzo lavoro, decisamente più maturo e completo. Hanno mantenuto il ritmo violento e l’incazzatura che dagli esordi li caratterizzava, incanalando il tutto in un punk che tra tutti è il più puro e più vicino all’hardcore. Si sono divertiti parecchio Laurie Vincent (chitarra, basso, voce) e Isaac Holman (batteria,voce) creando un ritratto ironico di questa nostra società selfie-centrica, composta da famiglie scoppiate, depressione, solitudine, tutto impacchettato nella sbrilluccicante carta da regalo del consumismo. Traspare la necessità di buttare fuori tutto, vomitando in faccia all’ascoltatore tutte le cause per cui anche la sua vita è una merda.
I riff di chitarra si mescolano alla batteria martellante in modo perfetto, creando quel tipico suono perfetto per una scazzottata da pub. Inglesi fino al midollo, si inseriscono perfettamente nella tradizione britannica, inserendo però molti elementi nuovi rispetto ai lavori precedenti. Abbiamo avuto il piacere di vederli dal vivo, suonano in due ma sembra che suonino in dodici. Un live in cui non sono mancati ironici e balletti coreografici e un’invettiva finale contro banche e finanza che ormai governano il mondo (Fuck Finance who run the world).
4 Street Worms – Viagra Boys
Si tratta di sei soggetti provenienti da Stoccolma, incontratisi grazie a tatuatori in comune, i quali dopo una sbronza hanno deciso di fondare un gruppo punk. Nel 2018 è uscito Street Worms, il loro primo album per YEAR0001, etichetta svedese famosa per la trap triste di Yung Lean. Suonano un punk pieno di influenze e ricco di strane distorsioni (guaiti e stridii), nel quale di tanto in tanto si sente anche un sax stonato (ma sempre a tempo), molto street blues.
Raccontano quanto è struggente quotidianità dell’uomo medio, di colui che si sente un perdente perché a scuola aveva difficoltà di apprendimento e di quello che sogna una vita perfetta e una moglie bellissima ma non l’avrà mai. Storie di gente che vive al margine, proprio come loro, gettata per strada e costretta a strisciare come vermi, nudi sull’asfalto sporco. Parlano delle loro dipendenze, di una strana Anfetanarchia, del loro cazzeggiare e di come non vorrebbero mai diventare. Cercano di spiegare quanto la vita che molti desiderano non sia altro che una bugia e di quante ipocrisie ci siamo circondati. Sebastian, che era molto insicuro, canta con una voce gracchiante mentre i suoi compagni suonano questa sorta di post-punk altamente ballabile e ipnotico. Si tratta di una nuova realtà di cui, se tutto va bene, sentiremo ancora parlare.
3 A Laughing Death In Meatspace – Tropical Fuck Storm
Partoriti dalla mente di Gareth Liddiard, già frontman e attore costante dei Drones, band alt-rock tra le più vive nella scena austrialiana, sono tra le rivelazioni più interessanti del 2018. Un art-punk in cui sperimentazione delirante e riff di basso e chitarra incalzanti coesistono, creando un connubio inaspettato quanto disturbante. La volontà è quella di rappresentare la complessità dell’esistenza attraverso la voce marcia di Liddiard che dialoga convulsamente con un’altra voce femminile più soave (Fiona Kitschin), in un intreccio che porta a un finale inaspettato più cupo e più soft. Non si tratta di punk canonico ma l’attitudine e le tematiche sono decisamente rotten.
Particolarissimo il brano Shellfish Toxin: una sorta di valzer droghereccio messo lì a ripulire tutto il marciume espulso fino a quel punto. Assoli inaspettati e assurdi, riff martellanti e suoni metallici che urtano l’orecchio, trascinando l’ascoltatore in un vortice ipnotico e affascinante. Vicinissimo anche al blues in alcuni momenti. Un mostro musicale non semplice da digerire che prova a raccontare una storia attraverso l’ossimoro del punk-prog. La copertina del disco è fortemente esplicativa.
2 Song of Praise – Shame
Debutto da paura per questi cinque ventenni di South London, a cui non frega nulla del consenso e degli applausi. Suonano praticamente per loro stessi mescolando post-punk, punk e alt-rock. Il frontman Charlie Steen troppo arrabbiato per la faccia pulita che si ritrova, sputa veleno dal microfono sgomitando tra i riff di chitarra puliti e il basso rabbioso e costante di John Finerty. Un lavoro in cui viene espressa la solitudine di una generazione, aspetto che gioca un ruolo centrale.
Nel brano One Rizla una rabbia inspiegabile e incontrollabile porta a rinchiudersi in se stessi. Pareti di chitarre che metaforicamente raccontano il distacco che vogliono creare verso l’ascoltatore, specie nei confronti di quello più superficiale che cerca la hit del momento e il ritornello catchy ma vuoto. Crisi interiori in cui nulla ha più un senso, dove non c’è più gusto neanche ad amarsi. Traspare la disillusione nei confronti di un mondo che ormai ha tagliato fuori i giovani, in cui l’inadeguatezza e l’anomia sono i sentimenti dominanti. Anche l’amore non sa più di nulla ed è soggetto a logiche che non sono più quelle del sentimento puro. Si tratta ancora di brani leggermente acerbi, ma vista l’età e visto il risultato che già sono riusciti a raggiungere, non vediamo l’ora di ascoltare nuovo materiale.
1 Joy as an act of Resistance. – IDLES
Non poteva mancare uno degli album migliori di quest’anno passato. Una rivelazione assoluta da parte di una band che già dall’esordio aveva fatto parlare bene di sé. Si tratta del loro secondo album in studio, pubblicato dall’etichetta londinese Partisan, in cui dimostrano ancora una volta quanto hanno da dire e quanto siano compatti nel farlo. Ponendosi come una delle band più critiche nei confronti della società e allo stesso tempo più interessanti, specialmente per i contenuti che offrono, veicolati da quello che è il mezzo perfetto, come può essere il punk hardcore a cui hanno esplicitamente tolto il prefisso di post.
La chiave è il significato che viene attribuito al divertimento, un divertimento sfrenato che funge da anestetico quando ormai tutto è perduto. Nessuno potrà mai toglierci la capacità di gioire anche per le cose più semplici. In un mondo sempre più incerto e oscuro la gioia diviene un atto di resistenza. Il non prendersi sul serio è l’arma migliore per fronteggiare questa società che ti desidera performante, professionale e allineato. “Sarcasmo Appassionato”, lo definiva Gramsci, per manifestare il distacco derivante dalla comprensione di un determinato momento storico, un sarcasmo che non è mero dileggio ma è qualcosa di profondamente costruttivo e alternativo.
Un album “materialista” che partendo dalla struttura e dalle situazioni più concrete arriva a criticare tutto ciò che è il sistema imperante. Un sistema fatto di discriminazioni, di indigenza (dovuta a salari sempre più bassi) e di violenza a cui siamo sempre più avvezzi e insensibili. Forse, il disco più impegnato del 2018, anno in cui la politica è entrata a gamba tesa nella musica mondiale. La situazione non è rosea, ma tutto sommato il fatto che si possa ancora comunicare attraverso la musica dà un po’ di speranza.