C’era una volta il 2016.
Era un anno parecchio strano. Tumulti in ogni parte del Mondo, un tizio con un parruccone simil-biondo correva per la presidenza degli Stati Uniti e pensate un po’, qualcuno era addirittura convinto che David Bowie fosse morto per davvero!
Quell’estate ero tornato al Primavera Sound e visto che sostanzialmente ci avevo già visto praticamente tutti i gruppi interessanti che erano in giro in Europa mi ero messo praticamente l’anima in pace che per quell’estate non avrei più visto niente. In realtà c’era una cosa che mi frullava per la testa, ma forse era troppo.
Insomma, già avevo visto Radiohead, Tame Impala, Lcd Soundsystem (che delusione), Moderat, PJ Harvey, ecc., forse un contegno avrei dovuto darmelo.
Però li aspettavo da troppo tempo e per troppo tempo mi erano sfuggiti. In realtà progettavo già da tempo di andarli a vedere a Bristol, ma in quegli anni si muovevano poco.
Parlo dei Massive Attack.
La tentazione era fortissima; poi avrebbero suonato proprio a Napoli (un po’ la loro seconda città), all’Arena Flegrea che ancora non avevo mai visto e che in apertura avrebbero suonato gli Almamegretta (nella mia mente il mantra “la fanno la fanno la fanno”).
Insomma per farla breve il 27 luglio mi misi in macchina e partii alla volta di Napoli.
Naturalmente partii in ritardo così da perdermi gli Almamegretta, ma questo non scalfì l’emozione di essere in un posto del genere. Ricordo che all’ingresso nella Cavea Bassa subito mi ritrovai il palco di fronte, posto al centro tra due enormi bastioni laterali che con la loro imponenza sovrastavanono l’intera cavea. La vista era ottima e tutto sommato non provavo troppa invidia per quelli che stavano nella buca dell’orchestra (proprio sotto il palco).
Come mi piaceva fare in quei periodi follemente pervasi dai social network, preferii non informarmi sulla scaletta delle date precedenti (la sorpresa del pezzo che non ti aspetti è uno dei piaceri più grandi quando vedi un concerto, no?), ma non riuscii a non notare che si era parlato molto male degli altri concerti italiani.
Non volli sapere perchè, me lo sentivo che 3d non si sarebbe mai concesso una brutta figura davanti al suo pubblico.
Immaginate la scena quando si fece tutto buio e, non appena tutti furono al loro posto, partì un synth ossessivo, fortissimo e cupo.
Era United Snakes, un b-side che mise in chiaro subito due cose di quel concerto: l’intensità e la forte impronta politica.
L’adrenalina era a mille.
Alla fine del pezzo, complice l’acustica perfetta, sentivo già tutti gli effetti fisici di tanta potenza sonora. Come se qualcuno mi stesse facendo i grattini dietro la nuca. Il ritmo sincopato delle due batterie faceva il resto, mandando completamente fuori fase il mio ritmo cardiaco.
In fondo il suono altro non è che un insieme di vibrazioni che si propaga nell’aria ed i Bristoliani sapevano eccome come manovrarle le onde sonore per arrivare al contatto fisico con il loro pubblico.
La cosa non era destinata a mitigarsi per la successiva ora e mezza anche perchè gli oscuri alfieri del Bristol Sound, fatta eccezione per un paio di battute in italiano con cui Del Naja volle sottolineare il suo esser partenopeo (e tifoso del Napoli), suonarono praticamente senza soluzione di continuità, toccando parecchie fasi della loro discografia da Blue Lines all’ep Ritual Spirit (era l’ultima pubblicazione fatta fino ad allora).
Ma dicevo prima, i Massive Attack, non erano solo noti per l’aver dato vita ad un modo di suonare, erano e sono tuttora noti per il loro impegno politico. E così mentre le due batterie continuavano a mandare fuori fase la trasduzione dei segnali neuronali di tutto il pubblico dell’Arena Flegrea, dietro di loro degli schermi facevano comparire immagini ma sopratutto parole. In italiano.
Come vi dicevo il 2016 fu un anno di grossi tumulti e proprio di quei tumulti i Massive Attack volevano parlare, facendosi comprendere, senza risparmiarsi e così mentre sul palco si alternavano Horace Andy (la sua voce è uno dei loro marchi di fabbrica) e Azekel, dietro comparivano scritte luminose ora ironiche, ora serissime, alternate ad immagini di persone note. Trump, la Turchia, Giulio Regeni, Brexit, Charlie Hebdo, l’Europa (la scritta “Cavolini” compare mentre scorrono i dati dell’immigrazione nell’UE), Putin (in un taglio à la Leone), Sgarbi, il medio oriente, Conrad, Freud e poi domande sul senso della vita o dell’intelligenza, con risposte spesso ironiche, a volte sarcastiche. Era palpabile l’urgenza comunicativa dei bristoliani.
Parte del pubblico non gradì la scritta Je suis Prete che comparve e restò fissa per più di qualche secondo sul finire di Risingson al termine di una lunga carrellata di Je suis… Il solito bigottismo all’italiana!
In ogni caso mentre tutto ciò succedeva sullo schermo, dopo una quarantina di minuti successe questo:
E dopo Angel il basso iniziò a frustare l’aria immobile con un giro tiratissimo ed inesorabile su cui le batterie si inserirono con un ritmo percussivo a formare il tappeto per le note scurissime di Daddy G: era Inertia Creeps.
La doppietta tratta da Mezzanine fu senza dubbio uno dei momenti più alti di tutto il concerto.
Ci furono altri due pezzi e poi con la salita sul palco di Deborah Miller, la conclusiva Safe from Harm.
Quando le note finirono il pubblico, ancora per la maggior parte seduto, dopo qualche momento di latenza, iniziò a chiedere il bis.
Bè, risaliti sul palco tutti i musicisti (sette solo gli strumentisti per la cronaca), arrivò il momento che tutta l’Arena Flegrea aspettava, ma non osava sperare (il mantra di cui sopra): le note di Karmakoma iniziarono a spandersi nell’aria e sul palco salì Raiz con indosso la maglia del Napoli.
Per il Trip in Napoli quasi tutto il pubblico, fino a quel momento per la gran parte seduto, era in piedi a ballare.
La successiva Unfinished Sympathy servì a chiudere l’encore in maniera orchestrale con la bella voce della Miller in mezzo agli archi mentre gli schermi dietro proiettavano la frase: Siamo tutti in questa situazione insieme.
Quando scesero tutti dal palco e le luci si riaccesero mi resi conto di essere completamente sudato; ero stanco come se avessi suonato io.
Se avessero fatto anche solo un altro pezzo credo che sarei esploso.
L’intensità di cui furono capaci i Massive Attack fu una cosa che ancora non avevo sperimentato prima. Ed ancora oggi non riesco a spiegarla bene con le parole.
Sicuramente l’ambientazione con la sua acustica aiutò, ma un suono tanto denso io ancora non lo avevo mai ascoltato.
Qualcosa che sembrò rendere solida l’aria.
Per qualche giorno non sentii alcun bisogno di ascoltare altra musica.