E se il destino avverso mi terrà lontano,
allora cercherò le dolci acque del Galeso
caro alle pecore avvolte nelle pelli,
e gli ubertosi campi che un dì furono di Falanto lo Spartano.
Quell’angolo di mondo più d’ogni altro m’allieta,
là dove i mieli a gara con quelli del monte Imetto fanno
e le olive quelle della virente Venafro eguagliano;
dove Giove primavere regala, lunghe, e tiepidi inverni,
e dove Aulone, caro pure a Bacco che tutto feconda,
il liquor d’uva dei vitigni di Falerno non invidia affatto.[Quinto Orazio Flacco, “A Settimio – Odi”, II, 6, 10. Traduzione di Enrico Vetrò]
Chissà cosa direbbe oggi Quinto Orazio, se potesse vedere in cosa si è trasformata la Città dei due mari, capitale dell’allora Magna Grecia, di cui tesse lodi nella sua opera.
Sembra (quasi) impossibile ricordare infatti che questa fosse un tempo una terra cara agli Dei, perché baciata da un clima fertile, ideale per l’agricoltura e la pastorizia.
E invece, ogni volta che si nomina Taranto oggi, sembra (quasi) impossibile non pensare all’Ilva – il più importante complesso industriale d’Europa, specializzato nella produzione dell’acciaio.
Non è possibile, non in questa sede, ripercorrere la storia – sbagliata – per cui i tarantini sono diventati protagonisti di cronaca nera, invece che di odi greche. Eppure, loro non ci stanno a farsi schiacciare da quel sentimento di pietà (da parte di chiunque sia estraneo alla vicenda), delusione (di chi ha sperato più e più volte nelle promesse dei vari sindacati, amministratori locali, politici da passerella di turno) e indifferenza (in chi non crede che protestare possa servire a qualcosa); a riunire i tarantini è la ricerca di giustizia che nasce anche dalla volontà di superare tutte le fasi emotive suddette. Per questo, si sono dati appuntamento sabato 25 febbraio in una manifestazione intitolata, semplicemente, “Giustizia per Taranto”.
E parlare di giustizia a Taranto significa parlare della propria famiglia. Perché tutti, inevitabilmente, hanno perso un parente o una persona cara a causa dei tumori e delle altre malattie – respiratorie, cardiovascolari, neurologiche e renali – derivate dalle emissioni di diossina dell’acciaieria.
Piero Piliego, insegnante all’Istituto tecnico-industriale “Righi” e tra gli organizzatori della manifestazione, spiega: “C’è una chiara volontà politica a tenere bassa la testa ai tarantini; se la gente scoprisse che c’è un altro percorso, un altro tipo di economia, cambierebbe idea. Conosco persone che hanno perso i figli, la mamma, il fratello e comunque dicono – ma come faccio ad arrivare a fine mese? – Loro sono vittime due volte.”
E allora insieme ad altri cittadini, hanno deciso di riunire tutti i comitati e le associazioni (Peacelink e Legamjonici, per citarne alcune) che in questi anni sono nati spontaneamente, per rispondere alle richieste soffocate per troppo tempo dalle autorità locali e nazionali: chiudere le fonti inquinanti, riconvertire i posti di lavoro degli operai e bonificare l’intera zona interessata.
“È un lavoro che potrebbe durare venti, trent’anni – continua il professore – e nel momento in cui quella cosa cessa, noi crediamo che la città si possa risvegliare”.
La manifestazione arriva (volutamente) nell’avvento dell’udienza del processo “Ambiente Svenduto”, prevista per il 1 marzo.
Riassumendo: la famiglia Riva – proprietaria dell’azienda e imputata per diversi capi d’accusa – ha inizialmente chiesto il patteggiamento dietro promessa di sblocco di 1,33 miliardi di euro, sotto sequestro in Svizzera, per “ambientalizzare” lo stabilimento, data l’urgenza della situazione sanitaria e ambientale.
Ma più si va a scavare, più le cose stanno peggio di quanto sappiamo e raccontiamo. “Si potesse andare dentro l’Ilva – e c’è chi l’ha fatto – ci sono delle zone del terreno dalle quali esce il grasso, l’olio”. Come una Nèmesi della Natura, che si riprende ciò che è suo dopo che l’avidità dell’uomo ha letteralmente bruciato tutto ciò che lo circonda.
Si trattava, dunque, di un accordo tra i Commissari Straordinari dell’llva (rappresentanti del Governo), la Procura di Milano e di Taranto e la famiglia Riva. Nessuna voce della società tarantina in capitolo. Quei soldi del patteggiamento, in realtà, basterebbero solo in parte; “di trattative ce ne sono tante a chiacchiere, di sostanza ce n’è zero”, sentenzia Piliego.
È recente, inoltre, la notizia della bocciatura della richiesta di patteggiamento da parte del Gip di Milano e del rinvio sullo sblocco delle somme dalla Svizzera; come racconta Antonia Battaglia, la gara per l’acquisto dell’Ilva non è per niente chiusa: da una parte Arcelor Mittal – colosso franco-indiano dell’acciaio – che ha messo sul piatto delle offerte una produzione di 8 milioni di tonnellate di acciaio (ma si parla anche di 12), di cui 6 milioni nella sola Taranto e i restanti nei vari stabilimenti dislocati in Europa [Tra questi è doveroso ricordare quello di Zenica, in Bosnia, dove – grazie ad un articolo del Guardian – si è scoperto che l’azienda non rispetta i requisiti minimi di sostenibilità: le acciaierie infatti operano senza i permessi validi mentre quegli investimenti, promessi per ridurre le emissioni prodotte dalla stessa fabbrica, non sono stati mai realizzati. Oggi la Bosnia respira un’aria che risulta tra le più inquinate al mondo].
Dall’altra parte del tavolo c’è la cordata AcciaItalia, di cui fa parte anche la Cassa Depositi e Prestiti: Peacelink ha fortemente opposto la decisione di quest’ultima: come dichiara Alessandro Marescotti, “lo statuto della Cassa Depositi e Prestiti non consentirebbe un’operazione di questo genere, dato che il denaro gestito da Cdp proviene dai risparmiatori postali e dovrebbe rispondere ai criteri sociali che escludono l’investimento in aziende decotte e in perdita, come l’Ilva”.
Ma non solo: a maggio si vota per la nuova giunta comunale e il clima da campagna elettorale comincia a farsi sentire. Per questo, Piliego spiega, si è deciso di bandire qualsiasi bandiera di qualsiasi partito o sindacato, proprio “perché noi non abbiamo personalmente ambizioni né la volontà di sostenere nessuno”.
Alla manifestazione si prevede inoltre la partecipazione di moltissime scuole, specialmente dal quartiere Tamburi, dove si sono organizzate nella stessa giornata assemblee d’istituto per permettere agli studenti di non prendere l’assenza.
“Uso sempre questo esempio con i ragazzi: Immaginate che vostro padre ha comprato una Punto vent’anni fa. Con questa macchina ha girato ovunque ma non l’ha mai portata dal meccanico; neanche una volta. La macchina oggi cammina a fatica, fa tanto fumo, perde olio, ecc. Secondo voi, converrebbe a vostro padre portarla dal meccanico e aggiustarla? Assolutamente no! La butti e la compri nuova, risparmi un sacco di soldi. Noi vogliamo che venga fermata e tolta di mezzo.”
È una partecipazione orizzontale proprio perché l’ambiente riguarda tutti: dai più giovani ai meno, dagli studenti ai professori, dai medici ai pazienti, dai liberi professionisti agli operai. Tra questi ultimi, Vincenzo De Marco, il “poeta-operaio”, che ha scritto sull’Ilva Il Mostro di Rabbia e D’Amore.
Ancora una volta, la mera constatazione di fatto (senza nessun tipo di assunto e/o intenzione qualunquista) resta la solita: la politica non riesce a tradurre le richieste provenienti dalla società civile perché offuscata dall’unico desiderio del profitto; the Italian dream – quella promessa di prosperità portata dal boom industriale negli anni Cinquanta – a Taranto si è presto infranto sugli scogli di amministrazioni corrotte, sindacati complici e imprenditori impuniti. Ma soprattutto sui corpi delle migliaia di vittime che la città ha pianto e continua a piangere.
Per quanto ancora gli uomini continueranno ad offendere la dea Dike?
Photocredits: Luciano Manna
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