2046 di Wong Kar-wai, l’amore come eterno vagare

VAGARE Benché ogni amore sia vissuto come unico e benché si respinga l’idea di ripeterlo altrove e in futuro, a volte il soggetto coglie dentro di sé una specie di diffusione del desiderio amoroso; esso allora capisce di essere destinato a vagare da un amore all’altro fino alla morte.
Frammenti di un discorso amoroso – Roland Barthes

Venimmo al mondo con il tempo contato e nessun chiaro obiettivo se non perderci. Affidiamo parti di noi stessi agli altri, e tanto più autentiche quanto più sconosciuti sono quelli che, con occhi eternamente nuovi, le raccolgono. Disseminiamo tracce, lineamenti, indirizzi, illuminanti epifanie con la beata disinvoltura di una grazia incosciente, di una vitalità sempre intera. Si potrebbe ricostruire la storia dettagliata dei nostri cambiamenti, della nostra maledetta fissità chiedendo agli amanti di una notte o di più notti, ai compagni di viaggio non scelti, provvisori e pazienti, a chi di noi conserva un’immagine, il ricordo di un segreto sussurrato con certezza di complicità e silenzio; scoprire come ricucire i frammenti di un destino nel vagare inquieto del desiderio, risalire fino all’origine del male o ridiscendere nel pozzo, nell’inconoscibile che portiamo nel petto. Cosa cerchiamo negli altri se non risposte, echi, parti sopite di noi stessi?

Nel 2046 corre una rete che collega ogni punto della terra, e c’è un treno misterioso che parte regolarmente verso il 2046. Tutti quelli che vanno al 2046 hanno un solo pensiero in mente: ritrovare i ricordi perduti. Perché si dice che niente cambia mai nel 2046, ma nessuno sa se quel punto esiste veramente, perché nessuno è mai tornato. Nessuno tranne me.

Lanciato verso l’assoluto, 2046 di Wong Kar-wai si apre su un treno che solca il futuro, in una realtà oleografica tra ambientazioni cyberpunk e solitudine inesorabile. Aleggia il senso più irrimediabile della sconfitta, come la caduta di illusione suprema. Ma qual è questa illusione?

Per quello che ne so io molti sono partiti per il 2046, ma lei è il primo che vedo tornare indietro. Mi scusi ma: sarebbe così gentile da spiegarmi perché lo fa?

Sin dai primi fotogrammi la recherche di 2046 appartiene al mito: non lo ricostruisce né lo evoca, ne reclama l’essenza per immagini e linguaggio. Dopo il futuro – il treno per il 2046, è il passato remotissimo o un vagheggiato altrove che viene richiamato a partire da un tronco d’albero tagliato sullo sfondo. Una preziosa silhouette di donna in primo piano scruta nel tronco: sui lati un azzurro neon spumeggia complice, mentre ascoltiamo il racconto di una leggenda. Una dimensione altra da cui tutto dipende, legata al futuro inseguito, irrealizzabile; e solo dopo: Tony Leung/ signor Chow rinato a se stesso e al mondo. È il presente? Il passato del futuro? O solo una delle linee temporali possibili?

– Avevi promesso di non tornare più.
– Volevo vederti.
– E perché?
– Me ne vado, qui non c’è futuro, torno a Hong Kong. Magari lì andrà meglio.
– E quando parti?
– Ho la nave dopodomani.
– Vuoi che ti faccia gli auguri?
– Voglio che partiamo insieme.
– Non sai nulla di me.
– E allora? Non ti chiederò mai niente.

Affidare una risposta a un mazzo di carte francesi ancora una volta richiama il mito, annuncia l’entrata in scena di archetipi a stabilire un destino. Ma un Re di Cuori può poco contro un Asso di Picche.

Usò questo trucco per respingermi, quella fu l’ultima volta che la vidi. Subito dopo lasciai Singapore.

Torna l’eleganza assoluta del protagonista di In the mood for love, dialoghi definitivi che sposano la più impassibile compostezza, camicie bianchissime e pettinature impeccabili. Singapore, che gli offrì riparo dalla grande delusione alla fine di In the mood, è ormai luogo da sfuggire.

Ciclicità, numeri eletti, ogni Natale dopo la sconfitta

«Era la fine del ‘66, a Hong Kong scoppiavano i disordini». Il signor Chow alloggia in un albergo di quart’ordine e si mette a fare il cronista, con grandi sacrifici. Per sopravvivere si adatta a scrivere su tutto, non disdegnando il racconto di spogliarelliste dalle forme sublimi che infiammano le notti in città.

Mi abituai presto a questa vita: divenni un seduttore, il re delle avventure di una notte. Imparai ad apprezzare il valore delle cose effimere.

Il 24 dicembre del 1966 incontra Lulù che faceva la ballerina a Singapore: “Lulù mi ci chiamavano gli altri” si schermisce lei. Erano stati intimi ma lei sembrava non averlo riconosciuto. «Andavamo insieme al casinò, perdevi molto… Mi raccontavi del tuo fidanzato, un cinese delle Filippine. Era ricco e dovevate sposarvi. Ma morì all’improvviso. Dicevi che era stato l’amore della tua vita… lo so, non è la serata adatta per i ricordi tristi…Ah, passammo insieme un Natale e tu mi insegnasti il cha-cha-cha».

Lo sguardo nel vuoto, le lacrime come perle e spilli, Lulù è un fantasma in vestito di pailettes, automa nel presente e prigioniera di un passato che non passerà mai.

I ricordi sono sempre bagnati di lacrime.

Le amanti del signor Chow vivono il Natale nell’unico modo possibile: come ponte designato sui ricordi tristi, un’invenzione di felicità ultra-umana. E per stordirsi e sopravvivere non basta tutto lo champagne del mondo.

Chiudendo la porta, vidi il numero dell’appartamento: 2046. Se quella sera non avessi incontrato Lulù, non avrei mai scritto 2046.

Solo una volta trasferitosi nell’appartamento a fianco al 2046 viene a sapere che Lulù il mattino seguente a quella vigilia di Natale era sparita dopo esser stata ferita dal suo amante, un musicista della sala da ballo.

A Lulù (*l’amante) piaceva molto; lo chiamava il suo colibrì, perché non si posava mai. Ma non le sarebbe piaciuto un amante opprimente, e non le importava se le sue storie finivano sempre male: l’importante per lei era esserne l’eroina.

Dopo la sconfitta e il crollo delle grandi speranze, quel che resta è una mondanità cinica, un perpetuo ricambio di corpi occhi labbra. Se In the mood è film di 2 con corollario defezioni e strazi, 2046 è il 2 che torna all’1, con impossibilità di completezza e inebriante dannazione come orizzonte. Se nell’opera del 2000 l’amore segue le leggi della pesantezza, il sequel del 2004 ascrive alla leggerezza le gesta erotiche del Signor Chow. Ma come sapeva Kundera, come mostra conoscere Wong Kar-wai – e come in fondo avremo sospettato anche noi: nessun gioco d’amore è del tutto innocuo. La sciagura sentimentale è sempre dietro l’angolo.

L’amore è un Uroboro, vivere per raccontarla

Non sono solo i corpi ma le vite degli amanti a intrecciarsi: tra complicità e ricordi ciascuno scrive la propria epica personale attraverso l’altro. La distanza strategica tra il signor Chow e le sue amanti, paradossalmente rende possibile un’intimità straziante. Ma nello scambio reciproco di piacere, chi usa chi? I corpi di Tomáš e Sabina ne L’insostenibile leggerezza dell’essere costituiscono la controparte fisica di anime affini, presenze certe l’uno per l’altra. Insostituibili. L’indole libertina e la profonda indipendenza di entrambi permette alla loro relazione di durare negli anni senza conoscere il veleno del rancore.

Bai Ling è una prostituta, porta orecchini sempre troppo appariscenti e finta allegria pendant, dovrebbe essere abbastanza cinica, si riterrebbe all’altezza delle aspettative che nutre per lei il signor Chow: una perfetta, bellissima “compagna di sventure”. Ma quando si dicono addio, è lei a soffrire, è lei questa volta che rivorrebbe il passato indietro.

«La verità è che non si torna indietro», le risponde lui, che ha scritto un romanzo su un luogo, il 2046, dove è possibile ritrovare il passato. La verità è che il signor Chow, Tomáš e Sabina spenderanno la loro quota di dolore altrove.

Tomáš allora non si rendeva conto che le metafore sono una cosa pericolosa. Con le metafore è meglio non scherzare. Da una sola metafora può nascere l’amore. (L’insostenibile leggerezza dell’essere)

I sentimenti ci prendono alla sprovvista, ma lei se ne rendeva conto. Parlando, mi chiese se al mondo esisteva qualcosa di immutabile. Avevo capito quello che intendeva, così le promisi di scrivere un romanzo sui sentimenti, in cui avrei cercato di spiegare ciò che provava il suo fidanzato. Per gioco lo intitolammo 2047. Ma la storia mi prese, e molto presto lui divenne un’ombra, la mia.

Il signor Chow si spinge oltre la metafora, scrive insieme e per la figlia del proprietario dell’albergo dove risiede addirittura un romanzo. Dopo averla osservata per mesi parlare da sola sulla terrazza -una figurina stagliata sull’azzurro con sottofondo di arie liriche persa in un lontano amore infelice-, come potrebbe non cadere nuovamente vittima dell’amore? Compassione e metafore, come insegna Kundera, sono la strada più breve e veloce per rimandarci ai sentimenti, per ricadere sconfitti sotto l’impero della pesantezza.

Verde, giallo, e azzurro sono i colori dominanti di 2046, il rosso che governava cromaticamente In the mood for love è lasciato alla dimensione altra, quella del romanzo. Così anche le geometrie, tra tutte quella dei costumi. Se In the mood è film di addii, 2046 è invece film di altrove. È un film raccontato, la vera protagonista è la scrittura. Le forze sotterranee che attraversavano In the mood, di cui la musica si faceva vettore, qui figurano solo nell’altrove, nella realtà oleografica del romanzo, un mondo palpitante di vita propria, o nel passato. Ed è questa meravigliosa coerenza narrativa ed eleganza formale, questa sensibile differenza di sguardo e qualità nelle immagini, che ci restituisce il mutamento profondo avvenuto nel signor Chow e si fa cifra del talento visivo di Wong Kar Wai. Ogni presente è minore, ogni futuro irraggiungibile e agognato. Il presente è zona disabitata, vuoto caos, la vita: materiale per la scrittura.

Un tempo quando uno aveva un segreto da nascondere andava in un bosco, faceva un buco in un tronco e sussurrava lì il suo segreto. Poi richiudeva il buco con il fango così il segreto restava sigillato per l’eternità. Il film resta legato a questo enigma iniziale. Qual è il segreto che si sussurra nel tronco dell’albero?
E ancora, nella scena iniziale:
Ho amato una donna ma lei mi ha lasciato. Speravo fosse nel 2046 e quindi sono andato a cercarla lì, ma non c’era. Da allora non riesco a smettere di chiedermi se mi abbia mai amato. La risposta è un segreto che nessuno conoscerà mai.
È forse questo il segreto lasciato dalla donna nel tronco?

Nell’antichità l’indovino prendeva posto nel tronco della quercia. Il grande albero, antenna dell’universo, si faceva canale di verità divine; l’indovino, quasi sempre una donna, portavoce di insindacabili vaticini. I segreti che possiamo racchiudere in un buco e sigillare nel fango sono tanti quanto varie sono le nostre passioni umane, i nostri infiniti desideri.

Ma chissà se il tronco di un albero, che ne sa di cerchi concentrici, non saprebbe essere più deciso di noi. Chissà se alla fine non riuscirebbe a convincerci che il segreto è proprio perdersi, e perdersi di più negli altri, cerchio dopo cerchio, storia dopo storia, e girando lasciare andare il dolore, e lasciando andare il dolore tornare nuovi e più vivi.
Finché non saremo veramente liberi dal passato, vuoti e perfettamente completi.


Qui potete leggere il prequel su In The Mood For Love
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