Sono ormai diversi anni che gli ultimi giorni di dicembre sono dedicati alla costruzione non di una classifica – per la quale il cinema come la letteratura, in fondo, poco si presta – ma a una vera e propria rassegna di suggerimenti, insieme agli altri redattori de L’Indiependente, dei film che ci hanno maggiormente colpiti durante l’anno appena trascorso. Giorni caratterizzati da una ricerca quasi spasmodica per la migliore impaginazione possibile, tra locandine, didascalie sempre troppo lunghe e, talvolta, da lunghe mediazioni per far entrare quel film a scapito di un altro.
Quest’anno, all’approssimarsi di questi giorni, ho sentito per la prima volta un senso di vuoto, alimentato dalla percezione che il cinema del 2020 non sia mai esistito. So bene e sappiamo, tutti insieme, che non è stato davvero così, eppure per contraddittorio che possa apparire non è vera nemmeno un’affermazione contraria. La stagione cinematografica propriamente detta è durata appena un paio di mesi, in Italia come in realtà in gran parte del mondo, prima che la pandemia esplodesse in tutta la sua impressionante violenza numerica. Ma già le settimane prossime ai primi drastici provvedimenti avevano visto i cinema – come d’altronde i teatri – già semivuoti per il timore di possibili focolai di contagio (quando pure venivano proiettati film che avrebbero meritato una menzione: dal Jojo Rabbit di Waititi all’Ema di Larraín, entrambi di produzione 2019, ma arrivati nelle nostre sale a inizio anno).
Partiamo proprio da questo punto: con consuetudine lessicale noi parliamo di cinema dando per assodato un parallelo che vale nella stessa identica maniera per il teatro – qui in modo ancora più stretto per l’inevitabile dimensione dal vivo: il luogo fisico di messa in scena dell’opera – il vecchio cinematografo – che diventa il nome della stessa arte rappresentata.
E quest’anno sappiamo bene come le sale cinematografiche siano state – fatta eccezione per qualche timida apertura estiva e piccole rassegne en plein air – per lo più chiuse e non certo solo in Italia. Di là e di qua dall’Oceano (Atlantico s’intende) il solo Christopher Nolan ha azzardato l’uscita del suo Tenet che, di là da suoi alcuni demeriti, si conquista un posto in quasi ogni classifica pubblicata da altri magazine più o meno di grido, più o meno di qualità. Azzardato perché, di fatto, esperimento fallito di riportare il pubblico in sala con incassi assolutamente al di sotto delle aspettative e un effetto domino che ha convinto i maggiori produttori a rinviare – di fatto, a data da destinarsi – l’uscita di film anche molto attesi.
Altro colpo è stato quello inferto ai grandi Festival. Fatta salva la Berlinale che si è svolta quasi normalmente (Undine di Petzold e Volevo nascondermi di Diritti anche avrebbero meritato un’attenzione, con quest’ultimo relegato a poche sale italiane sul finire di agosto), Cannes e Venezia sono stati fortemente penalizzati, con il primo spostato in autunno praticamente in concomitanza con la seconda ondata, e il secondo svoltosi, sì, regolarmente ma con enormi limitazioni di visibilità e di programma.
Tutto ciò ha compromesso la normale e quotidiana fruizione delle opere nella loro sede naturale. Tornando proprio a Nolan, chiunque abbia visto Dunkirk al cinema – addirittura in formato IMAX per il quale il film è nato ed è stato progettato – ben conosce la differenza impressionante dell’impatto del film rispetto a una resa da visione domestica. E non è certo un caso che proprio Nolan, per il suo Tenet abbia tentato il ritorno in sala invece di affidarlo a una delle tante piattaforme in rete.
Ecco allora che il “cinema” si è spostato di fatto proprio sulle piattaforme digitali – Netflix e Amazon Video su tutte – tra produzioni originali o semplice appoggio, reso necessario alla diffusione delle opere. Ma anche qui andiamo incontro a operazioni azzoppate e che in ogni caso annullano del tutto la visione collettiva dell’opera.
Non è soltanto il problema di una visione privata, intendiamoci; chi vi scrive ha provato in più di un’occasione l’ebbrezza di una sala da 300 posti solo per sé, complici improbabili orari pomeridiani e film d’essai. Il problema – per chi vuole accorgersene è – che la visione casalinga spezza totalmente la sequenza del rito: scegliere un film, cercare il cinema, fare la coda per i biglietti, entrare in sala, godere dei trailer, spostare cappotti, alzarsi per far passare il vicino di poltrona, una chiacchiera nell’intervallo o a fine proiezione, finanche il diritto sacrosanto ad abbandonare la sala (ricordo gli esodi durante The Tree of Life di Malick – il suo bellissimo A Hidden Life, 2019, si è ritrovato nelle nostre sale il 27 agosto). Senza star qui a scomodare il Benjamin de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, il 2020 con le sue misure restrittive – e sospendiamo in questa sede appoggi o critiche rispetto alla sicurezza di cinema e teatri – ha estremizzato un andamento che negli ultimi anni si è fatto sempre più forte.
Prendiamo ad esempio il Charlie Kaufman di I’m thinking of ending things che, di là da molte imperfezioni, resta uno dei titoli più interessanti della stagione. Allo stesso modo, però, appare molto chiaro che quel racconto – ideato e realizzato per la piattaforma Netflix – tende a replicare atmosfere ed estetiche molto più da serie che da cinema, finendo con l’appiattire il linguaggio cinematografico; a onor del vero, in un rapporto del tutto opposto e rovesciato rispetto alla prima produzione di interesse Netflix, quel Roma di Cuarón che, invece, in ogni inquadratura testimoniava una natura da grande schermo eppure “costretto” da dinamiche economiche a un passaggio di appena tre giorni nelle sale.
Quando diciamo film, diciamo in fondo pellicola, e pur non volendo essere a ogni costo nostalgici – o legati all’etimologia della parola – non possiamo perdere di vista parte di questo problema. Lo sapeva Cuarón che in maniera un po’ naïf allegava istruzioni precise per la visione domestica di Roma (novello Kubrick che, su grande scala, tormentava i proiezionisti dei teatri), lo sa chi ad esempio ha avuto la fortuna di godere di un The Master di Paul Thomas Anderson proiettato a Venezia in pellicola a 70 mm (lasciando critica e pubblico di stucco per le possibilità cromatiche della grana) o, sul fronte opposto, chi si è fatto una chiacchierata con Pasquale Mari, direttore della fotografia per Teatro di Guerra di Mario Martone alle prese con le complesse ma affascinanti limitazioni del 16 mm e la loro trasposizione in DVD. Quanto avrebbero beneficiato altri bei titoli della stagione come Druk di Vinterberg, presentato a Cannes con una prova superba di Mads Mikkelsen o il cinema originale e atipico di Susanna Nicchiarelli e il suo Miss Marx, passato a Venezia o, ancora, la grana in bianco e nero di The Lighthouse (2019) di Robert Eggers – questi ultimi passati brevemente a inizio e fine estate nelle nostre sale – con una programmazione in sala più ampia, duratura, in tempi sereni?
L’assenza della nostra rassegna non è, dunque un vezzo, né una mancanza di ricerca su titoli che, come abbiamo visto, ci sono – ma è piuttosto il tentativo di sollevare un problema e una discussione su un trend che l’emergenza sanitaria ha solo accelerato e acuito e che, soprattutto, rischia di far diventare sistemico.
Il cinema con la produzione di film quasi al palo per la prossima stagione – con una corsa ai set estivi e una scommessa sulla sua possibile concretizzazione – con Hollywood ormai quasi sclerotizzata sulle trasposizioni dei supereroi, con le difficoltà del settore italiano che, al di fuori di alcuni tentativi, resta sempre più lontano dai fasti che furono, con la riduzione del piccolo schermo – dalle smart tv a quello del proprio portatile – con l’impatto sempre più forte della serialità appannaggio delle stesse piattaforme che si fanno ormai case produttrici, con le difficoltà economiche delle sale messe in ginocchio dalle misure anti covid, e con il guado che da qualche anno stanno attraversando i Festival sospesi – come appaiono – tra la ricerca dell’originalità e dell’alterità ad ogni costo per critici e cinefili e un rinnovamento che sembra, però, passare per un deterioramento della qualità complessiva delle opere in concorso, infine, con la pigrizia culturale del pubblico, si trova a uno snodo delicatissimo della sua centenaria vita.
E allora, come in tutti i settori dell’arte e dello spettacolo, questa sospensione della normalità non può condurre a un percorso abituale – quello della classifica o della rassegna che va a pescare pochissimi film tra i pochi che in qualche modo sono stati resi fruibili – ma deve porre interrogativi a chiunque lavori nel settore dell’industria cinematografica e non da ultimo allo stesso pubblico che ne fruisce, su quale dovrà essere il futuro della settima arte alla fine di questo suo anno zero.
In tal senso il 2020, sempre, a gennaio, ci ha regalato un bellissimo documentario – Andrej Tarkovskij. Il Cinema come preghiera – diretto da suo figlio Andrej Andreevič che, attraverso filmati d’epoca, frammenti dei film e la voce dello stesso straordinario regista sovietico del novecento, ci accompagna dentro a una profondissima riflessione sul cinema e sull’arte, sul senso del sacro e della rappresentazione. Come emerge dalla visione e come sottolinea lo stesso figlio, per Tarkovskij “l’artista non può insegnare niente a nessuno. L’artista è una spia d’allarme, è qualcuno che preannuncia ma che non vuole imporre nulla. Una reazione alla realtà nella quale viviamo attraverso l’arte”. Ecco, ripartire, da queste parole o da quelle di tanti altri grandissimi maestri potrebbe essere una soluzione possibile per non cadere nel baratro di una produzione cinematografica sempre più volta al solo consumo e intrattenimento, un sottofondo in immagini mentre continuiamo a chattare col nostro smartphone, premendo ripetutamente il tasto pausa.