Fotografie di Alessia Naccarato
Chi arriva a Ypsigrock Festival per la prima volta – come me, d’altronde – lo fa con l’emozione di chi ha ascoltato per anni solo lodi di questo piccolo grande festival musicale nel cuore della Sicilia a braccetto con un bagaglio pesantissimo di aspettative che reclamano di essere soddisfatte. L’attesa è lunga e l’ansia pure: prima la corsa per trovare un tetto sotto cui riposare durante le poche ore da ritagliare al sonno – è meglio muoversi in fretta e non distrarsi neanche un attimo ché finiscono. Poi l’ansia da: avrò fatto bene? Tutti mi dicono che dovevo andare al campeggio. Insomma, il conto alla rovescia per Ypsigrock inizia in pieno inverno con l’annuncio delle date e termina appena messo piede nel piccolo borgo che da lì a breve diventerà un po’ casa. Ed è un’attesa fatta di piccoli riti: prendere contatti e strappare un passaggio; ascoltare i ricordi altrui e rimpiangere di non esserci stati in una o l’altra edizione; cercare le canzoni dei gruppi che pian piano vengono annunciati per potersi permettere quanto meno degli sparuti sing along. Il mio 2019 è stato un’altalena di soddisfazioni e rimorsi, ma quasi tutto vissuto contando i giorni per. E basta arrivare a Castelbuono per scoprire che è stato così un po’ per tutti.
L’edizione da poco conclusa, peraltro, non era neanche una qualunque: no, quest’anno c’erano i The National. Un nome che è arrivato come un infiocchettato e luccicante regalo di Natale, che ha chiamato gente da tutta Italia e che ha in parte oscurato una line-up – tra debutti da tenere d’occhio e perle da scoprire – di tutto rispetto.
E i The National erano lì, la prima sera, senza neanche il tempo di farti prendere confidenza con le strade, i palchi sparsi in vari punti del centro storico; lì, pronti a toglierti il respiro in una giornata in cui tutto sembrava purtroppo essere stato inserito con l’arduo compito di renderci meno impazienti e scalpitanti, sotto un sole che non ha mai smesso di spaccare le pietre della città se non al momento di scomparire all’orizzonte.
Sarebbe però sciocco e infantile ridurre questa edizione di Ypsigrock a un live di due ore del venerdì; così come lo sarebbe descriverla sulla base delle sole esibizioni. Non si possono trascurare i luoghi che conservano e fanno da cassa di risonanza alle emozioni che scorrono sotto pelle; le poche ma ripetitive azioni che riempiono le giornate e assumono la dolcezza delle abitudine estive; il fattore umano di quelle poche migliaia di persone che si ritrovano a incrociarsi più e più volte – sottopalco, al bar in piazza, in coda a sudare – fino a legarsi ripromettendosi di ritrovarsi l’anno prossimo.
Torno da Ypsigrock con la sensazione di aver bevuto un filtro d’amore a base di granita, prosecco e vodka – ok, forse anche qualcuno in più di uno – e la nostalgia di chi si lascia alle spalle l’estate anche se siamo ancora ad agosto. Un miracolo perfetto che va vissuto, e che anche se le parole inciampano proverò a raccontare.
Giovedì 8 agosto
Il primo giorno – mi dicono – è quello a cui solo gli aficionados non mancano mai. Perché dopo tutto c’è ancora ben poco da fare. L’Ypsi Once Stage ancora in allestimento; l’arco fuori da Piazza Castello ancora spoglio. Castelbuono si riempie a poco a poco di persone col braccialetto azzurro al polso, che (ri)prendono confidenza con le distanze e gli spazi, i vicini di casa o di tenda. Si lascia il tempo scivolare senza fretta: oggi si può ancora andare piano, tra il primo assaggio di panettone con spalmata di crema alla manna da Fiasconaro e la prima bicicletta (il filtro alcolico di cui prima) al Cycas.
Ma l’Ypsigrock non vuole mica lasciare a bocca asciutta di musica, quanto meno i coraggiosi campeggiatori. Basta aspettare il dopo cena, raggiungere l’Ypsicamping per vedere aprirsi le danze nella musica sul baffuto Cuzzocrea Stage. L’oneroso compito spetta a Chiara Castello e Camilla Matley, in arte I’m not a blonde, che nei quarantacinque minuti a loro disposizione rinfrescano ancora di più l’ambiente tra synth e chitarra. Un elettro-punk-pop, quello del duo milanese, che strega e ci rende già nostalgici per quel dolce retrogusto anni ’80; ci fa ballare e al contempo riflettere. Come la precisazione prima di una delle loro canzoni più belle, Daughter: vogliamo andare oltre le etichette che ci incasellano: tu sei bello, tu sei brutto; tu sei maschio, tu sei femmina. A loro seguono Canarie, band indie bolognese, e il djset dell’ormai venerato Fabio Nirta. Si va a letto che Ypsi è già bellissimo, ed è solo il primo giorno.
Venerdì 9 agosto
La mattina del venerdì è il momento migliore per fare scorta di energie per i giorni a venire: in libera uscita per chi è giù e in completo silenzio per chi è su. La mia prima tappa ufficiale della giornata è nel pomeriggio, dove l’Ypsi & Love Stage, nella splendida cornice del Chiostro di San Francesco, ospita per primi gli Huntly. Elspeth Scrine, Charlie Teitelbaum, and Andrew McEwan: solo tre migliori amici da Melbourne che si divertono a fare musica e a cui ci si affeziona nel giro di due pezzi. Il loro è un pop elettronico contaminato da una verve R&B, scanzonato quanto loro che in fondo restano belli e freschi – nonostante il caldo – come chi non vuole prendersi sul serio. Ci muoviamo al ritmo dei loro beat morbidi seguendo le due voci che si danno il cambio, si amalgamo tra loro e gli effetti. Come veri amici finiscono di cantare in un abbraccio – lo stesso che avremo voglia di dargli noi per tutti e tre i giorni che li incroceremo a Piazza Margherita in attesa di un gelato.
Vengono seguiti da uno dei tanti gruppi di questo festival che potresti scorgere tra un qualsiasi annale di una high school di paesi anglosassoni: i Boy Azooga, quartetto di Cardiff capitanato da Davey Newington. Nella più classica delle composizioni strumentali pop ci regalano un’oretta piacevole, sulle cui note è possibile disperdersi all’interno del chiostro; afferrare una birra fresca e godersela fino all’ultima goccia immersi nella musica.
Ci si sposta poi nell’Ex Chiesa del Crocifisso, dove troviamo il palco Mr. Y Stage. La bellissima chiesa sconsacrata preceduta da una fama che la vede bella quanto calda, e che non tradisce le aspettative. A esibirsi per la prima volta sull’altare è Giungla aka Emanuela Drei già voce degli Heike Has The Giggles ed ex basso degli His Clancyness. Armata di sola chitarra, pedali e drum machine, la sua è una esibizione di chi sa come calcare e dominare un palco. Tra sonorità ruvide e a tratti nostalgiche, porta un nome italiano ma si mostra come il perfetto anello di congiunzione tra la scena italiana e quella dell’alternative-pop femminile internazionale. Un live intensissimo, in cui le pause concesse sono solo quelle per riprendere fiato nell’afa creatasi tra le mura bianche. Il primo di tanti in cui vedremo schitarrare completamente distesi per terra, per poi venirci incontro e farlo là, intorno a un pubblico completamente abbagliato dalla sua carica.
Scappati dall’esibizione in Chiesa, tocca correre per prendere posto in una Piazza Castello in parte gremita di persone che hanno deciso di saltare a piè pari tutte le esibizioni del pomeriggio pur di guadagnare una posizione migliore in vista di quello che è per molti il live più atteso dell’anno. La transenna davanti l’Ypsi Once Stage, il cui nome ci ricorda che si può approfittare della vista sulla piazza da lassù solo una volta, è già un piccolo muro di gente che si scalda, mangia, difende la posizione. Tutto sembra un contare i minuti in attesa dell’arrivo di Matt Berninger e dei suoi, ma la prima artista che sale sul palco arriva con l’intenzione di chi non vuole per nulla scomparire nell’ombra. Il suo nome è Dope Saint Jude, direttamente dal Sud Africa in compagnia di una dj e di un’altra voce. Rapper avvolte in tutine attillate mangiano il palco con una fisicità imponente e un voce che ci avvolge e ci carica. Le sue sono rime da cui si viene subito trascinati e che mettono sul piatto tutti gli elementi di una narrazione sincera e autentica. Dope Saint Jude si rivolge a noi, parla di sé, della sua crescita, della madre scomparsa a cui dedica uno dei pezzi più delicati, dove risuona un vissuto personale che raggiunge presto l’universalità delle sensazioni di cui tutti facciamo esperienza. Non gira intorno alle questioni ma chiama le cose col loro nome: lutto, femminismo, istruzione, difficoltà, sorellanza. Ci spinge a fare spazio a chi è in difficoltà – come lei fa raccogliendo fondi da devolvere alla sua comunità e dando spazio anche sul palco all’altra rapper che l’accompagna, a cui lascia un’intera canzone – e a spostare il nostro punto di osservazione sul mondo.
Non riescono a uguagliare lo stesso livello di intensità, o quanto meno di divertimento, il duo che arriva dopo: Let’s Eat Grandma, gruppo musicale britannico formato Jenny Hollingworth e Rosa Walton. Due figure esili ed eteree il cui pop glam e una performance da musiciste non ad alto livello, riesce a coinvolgere e convincere la piazza solo in parte. Decisamente sottotono per un album la cui registrazione in studio invece sta ritagliandosi piano piano un gruppo di fedeli ascoltatori.
Eppure va bene tutto se quella che segue dopo è la prima delle magie del weekend: i The National sono finalmente qui, davanti a noi. Aspettati da una folla che ha strappato tutti i biglietti dell’ingresso giornaliero del venerdì, ma anche da chi, al cantuccio delle proprie mura domestiche, ha avuto modo di viversi tutto filtrato dallo schermo di una diretta streaming. E’ difficile anche risultare obiettivi quando davanti si ha probabilmente una delle band migliori e iconiche del nuovo millennio che esegue il suo album più intimo, le cui sonorità sono state assaporate in questi mesi che separano dalla pubblicazione e che finalmente possono prendere aria e risuonare in uno dei luoghi più adatti a custodirle. Un Matt Berninger non nella sua migliore condizione vocale che compensa con un carisma commovente e travolgente. Beve e bevono tanto, ci fanno piangere tra le note di Light Years e Rylan, tra le tante; sta e stanno sempre con noi. Quella di venerdì è stata una piccola grande dichiarazione d’amore a quella piazza, che non hanno mai voluto tenere lontana. Matt è stato a un passo dai nostri visi tutte le volte che poteva, è sceso a passeggiare, lasciandosi toccare, stringere; avventurandosi per ultimo anche sulla scalinata, come a dire “non lascio nessuno indietro”. Quello della band di Cincinnati è stato un incantesimo dal decorso lungo due ore che ci ha condotto lì dove la magia si è finalmente concretizzata, in una Vanderlyle Crybaby Geeks d’addio lasciata cantare nella sua totalità alle voci unite di un pubblico commosso.
All the very best of us
string ourselves up for love
Sabato 10 agosto
Cos’altro può offrirti un festival dopo un’esibizione come quella della sera prima? – viene un po’ da chiedersi a chi è incosciente e all’oscuro di tutte le carte nella manica dell’Ypsi e dei suoi organizzatori.
Sabato mattina, nel dubbio, ci si sveglia presto: fuori viene accesa la miccia della crisi di governo, ma quanto meno al Giardino di Venere a mezzogiorno c’è un talk da seguire. Sarà il movimento #metoo che ha scosso la scena culturale e sollevato la necessità di ascoltare tutte le voci possibili, il Primavera che ha iniziato a dettare nuove regole del gioco con la sua nuova politica che vede una line-up con un’equa distribuzione di spazio alle donne e agli uomini, ma anche Ypsigrock non si sottrae al discorso sul gap di genere. Giovanni Ansaldo di Internazionale e Dario e Veronica de La rappresentante di Lista sono alcuni dei nomi presenti e pronti a dire la propria in un intervallo di tempo che però permette solo di affrontare la questione in modo superficiale, forse non sempre nel focus giusto. Manca un confronto definito, il tentativo di immaginare non tanto possibili soluzioni quanto cause più profonde. Per chi non è asciutto dello sbilanciamento delle parti che crea il sistema patriarcale in cui siamo immersi, e di conseguenza anche quello musicale, il talk risulta essere una blanda conferma dei dati che si posseggono; per chi non lo è una semplice infarinatura. Voglio credere che sia sufficiente a spingere verso una ricerca personale, ma sarebbe comunque apprezzabile se si continuasse ad affrontare la questione andando più alla radice.
Giusto il tempo di una breve litigata su cosa porti o meno al conformismo e si sale su, al camping, dove nel pieno dell’atmosfera rilassata all’ombra degli alberi Rodrigo D’Erasmo e Roberto Angelini suonano il loro Way to blue, omaggio a Nick Drake. E lì, dove ancora il cuore non si era ripreso dallo scossone della sera prima, inizia a mancare di nuovo un battito, e poi un altro ancora. Davanti abbiamo due grandi musicisti che ricordano uno dei più grandi. Chitarra e voce, in un intrecciarsi continuo di storia della musica e memoria personale (commovente il ricordo dello step father – come lo ha chiamato lui – di Angelini e il successivo brano in tepping). Le stelle cadenti cadranno o sono già cadute, ma sicuramente lì un desiderio non svelato di tutti si è avverato.
In un via vai continuo tra posti e altezze, si ritorna al Chiostro a dare finalmente un po’ di vita feroce e pulsante alla giornata. Il primo a salire sul palco è un progetto musicale nato da due menti poi espanse e supportate da una band polifonica e dalla presenza micidiale. Si chiamano La rappresentante di Lista e subito ci ricordano come e perché – qualora qualcuno se lo stesse chiedendo – sono in un tour praticamente senza tregua dall’uscita del loro ultimo album, GO GO DIVA. Quella che hanno a disposizione è un’ora che forse non basta ai fan più sfegatati, ma che viene riempita fino all’orlo dalla potenza dei testi che toccano il cielo grazie alla voce incredibile di Veronica Lucchesi e agli arrangiamenti strabordanti ma sempre impeccabili di tutto lo schieramento strumentale. Veronica è ancora la dea che conosciamo capace di reinventarsi con le stagioni, capace di canalizzare sguardi ed energie. Ogni cosa trova nuovamente il suo corretto appellativo: corpo, sete, sogni, e porti aperti. Sempre aperti.
Qualcuno forse pensava anche di trovarseli stanchi dopo tanto suonare in giro per l’Italia, e invece Dario, Veronica & co. sono riusciti a dimostrare per l’ennesima volta di che pasta sono fatti.
Pochi brani di Mokado e poi altro giro, altra coda, questa volta per l’esibizione probabilmente più strana di tutta l’edizione. Alberto Fortis arriva direttamente dagli anni ’70, vestito di bianco e con scarpe dotate di ali. La peculiarità del cantautorato italiano al suo splendore mista a uno spirito sopra le righe, già divenuto padrino morale dell’Ypsi prima ancora di esibirsi. Abito lustro, pianoforte, uno schermo su cui scorrono collage da persona non proprio al passo coi tempi. Quella di Fortis è un’esibizione dagli incastri sbagliati: lui, il festival, il pubblico fatto di giovanissimi ammutoliti e vecchie signore sfegatate. Finisce però che siamo tutti sudati e gli vogliamo un gran bene – non c’è davvero nulla di cui lamentarsi.
Pausa, respiro. La giornata è stata lunga e lo sarà ancora di più. Se c’è un pregio di Piazza Castello e del suo essere così raccolta è che qualsiasi angoletto va bene per godersi il concerto: che tu sia davanti, in mezzo al pogo quando parte, o sulle scalinate del castello non importa. Ogni zona ha la sua sfumatura da offrire, la sua speciale esperienza di osservazione da regalare. La seconda tornata di concerti del Once me la godo da su infatti, praticamente sotto la scritta Ypsigrock, sfondo di migliaia di foto scattate durante questa edizione, ma vicina a una coppia di genitori e la loro piccola bimba (ovviamente fornita di cuffie antirumore). Qualcuno mi dice che la magia di Ypsigrock è anche questo: unirci tutti abbattendo distanze di età, genere, provenienza.
Ed è su questa scia che arrivano scoppiettanti i primi due artisti della serata. Baloji, rapper belga di origini congolesi, dà il via alle danze con il suo stile denso delle contaminazioni culturali di cui è portavoce. Porta tutta la presenza scenica della tradizione africana da un lato e tutta la raffinatezza del gusto musicale europeo. La sua musica è un ponte tra culture, tra il suo passato riversato nei versi e la gioia del presente che stiamo vivendo, tra lui e noi corpi danzanti ricolmi di gioia.
Belgio fa largo a Belgio e dopo Baloji arriva WWWater che con la sua esibizione al confine tra l’R&B e l’elettronica prova a tenere il ritmo alto del suo predecessore. Forse non ce la fa del tutto, ma l’impresa non era poi così semplice.
Ricordate la storiella delle band createsi all’uscita dal liceo? Ecco, facciamo che vale anche per quelle tedesche. Come per i Giant Rooks, giovanissima band tedesca che di professione fa l’indie rock più pulito del momento, portando degnamente avanti una tradizione di gruppi sul calibro dei Mumford & Sons. Freschi e belli, così tanto da voler mettere da parte dieci anni della tua vita per sentirti a posto nell’avere un fan club a loro dedicato; Frederik Rabe (voce, chitarra e percussioni) un perfetto animale da palco che sa cosa vuole e come prenderselo. Ci piace anche questa gioventù.
Stare seduti su una delle pietre che il castello regala vuol dire anche concedersi una distrazione, sdraiarsi; anche permettersi di chiudere gli occhi per qualche minuto e lasciare che musica e vita scorrano intorno e risuonino nelle nostre coscienze senza alcun impaccio visivo. E’ questo quello che succede a molti quando chiude questa lunga notte David August, un alieno venuto dallo spazio a bordo di una navicella elettronica; giunto probabilmente in una delle poche edizioni del festival priva di una vera e propria serata dance. Prova a scuoterci, ogni tanto, a ricaricare le pile; ma finisce per lo più per cullarci proiettati in un’altra dimensione. Per poi salutarci in silenzio e scomparire, quasi in modo inaspettato, con un omaggio alla musica italiana e alla verità, che è sempre al di là. Ovunque lui sia finito: noi lo ringraziamo.
Domenica 11 agosto
Il futuro è già nostalgia, ma la nostalgia è sicuramente già domenica. Ultimo giorno, ultimi concerti; anche ultimo panino con la salsiccia ché dopo tutto chissà quanti chilometri si sono battuti nel minuscolo ma ormai familiare centro storico di Castelbuono.
Domenica è anche il giorno in cui ci se la prende più comoda: si fa ordine tra vestiti e pensieri; si molla un po’ la presa prima di riafferrare la corda di qualcosa che vorresti non vedere mai finire. Però il pomeriggio arriva e si ritorna, in una routine ormai consolidata, al chiostro per i Whitney, duo di Chicago. Distanti dalla carica de La rappresentante che ci aveva rinfrancati il giorno prima, portano con franchezza spiazzante il loro essere giovani. Un po’ brilli, sicuramente provati come tutti dal caldo e da un tour europeo dai ritmi incalzanti; scanzonati nel ridere tra loro, fra di loro e poi salutare i compari Fontaines D.C. tra il pubblico. Un commento su youtube a uno dei loro pezzi dice: this band makes me nostalgic for things that never happened – non saprei descrivere meglio il loro breve concerto, sicuramente imperfetto ma capace di rispecchiare il mood agrodolce che avvolgeva un po’ tutti.
L’ultimo giro di giostra dentro la chiesa spetta invece agli ⁄handlogic, avversari di Ólöf Arnalds (in foto) nella corsa contro il tempo e gli incastri di orario; progetto di alternative-pop / elettrica nato in terra fiorentina. La loro è un’esibizione onesta, che non fa rimpiangere la scelta di essere ancora lì e non dentro il magico cortiletto del museo. Immersi nel blu delle luci che riflettono sulle pareti, li vediamo scatenarsi e poi ricomporsi, con un omaggio a Ypsigrock come parte della genesi di uno dei loro testi.
Raggiungere Piazza Castello per l’ultima sera ha il sapore di un’ultima gita tra amici, quella che si fa per andare all’avventura un’ultima volta, incastonare i ricordi e poi salutarsi. Si prende posto insieme, non ci si separa; si resta in quel gruppetto di persone portate da casa o conosciute una manciata di giorni prima per non lasciare che nessun momento di felicità esista da solo ma risuoni da corpo a corpo. In uno dei talk della mattina si era detto che oggi si sta ripensando anche al concetto di comunità. Credo anch’io sia uno dei temi da riportare sotto gli obiettivi di una discussione generale: bisogna rimodulare il proprio esistere nel mondo e negli spazi; il proprio muoversi in funzione non solo di sé ma anche di chi ci circonda. Non so se sia Ypsigrock a richiamare a sé persone predisposte a rimettere in gioco il proprio concetto di egoismo o esiste davvero un’azione positiva che il festival attua attivamente su chi vi transita, ma raramente mi sono sentita così a casa come in un paese neanche troppo lontano da me chiamato Castelbuono. Mai in pericolo, sempre protetta. Ed è uno dei pensieri che ti attraversa lungo i minuti di passeggio – a tratti in salita, altri in discesa – tra i volti che si ripetono.
Ma non è ancora tempo di piagnucolare su ciò che è stato perché Ypsi è ancora lì pronto a darti l’ultima botta. I Pip Blom scaldano il palco con un pop leggero quanto il vestitino della cantante. Pip è il suo nome ma quella che abbiamo davanti è una band a tutti gli effetti. Il chitarrista, il fratello, non ricordiamo se arriva anche lui a terra ma è sicuramente a petto nudo. Fa caldo, caldissimo, ma la vita è ancora una cosa lieve e il loro guitar pop vivace ci aiuta a ricordarlo.
L’atmosfera di allegria viene però presto spazzata via da un’inattesa ventata gelata di post-punk. Salgono sul palco i Whispering Sons, vengono dal Belgio e hanno letteralmente le mani in pasta negli anni ’70 da cui attingono per riportare sul palco un genere che forse non lascia più molto spazio alla sperimentazione, ma che loro sanno comunque fare maledettamente bene. La frontwoman è Fenne Kuppens che con un carisma e una voce spiazzante ha lasciato tutti interdetti – nella migliore delle accezioni. Glaciali, folgoranti; in grado di portare quella nota stridente, e per questo bella, in più che forse non era ancora arrivata.
Probabilmente la rivelazione dell’Ypsi, come d’altronde sono quella dell’anno la band che prende il loro posto subito dopo: i Fontaines D.C., arrivano da Dublino e fanno casino. Sull’onda del consenso che gli sta dando il loro album di debutto, Dogrel, il loro è un incedere sul palco con passo spavaldo. Tanto disponibili se incontrati per strada quanto scatenati sul palco, a partire da Grian Chatten, nevrotico, colto a darsi schiaffetti in viso, a tirarsi le maniche. Ian Curtis, sei tu? – ogni tanto viene da chiedersi. Non avranno tenuto alta la tensione fino in fondo però siamo più sicuri che they’re gonna be big.
Allegria, inquietudine, e poi? L’Ypsigrock ci dice ciao – se non vogliamo considerare l’ultimo party – con la poesia delle poesie. Gli Spiritualized, con il loro Jason Pierce, ci raccolgono stanchi, provati, felici ma sfiancati e ci ricompongono come tante fate madrine comparse direttamente dalle fiabe del cuore. È tutto qui, è tutto ora. Siamo qui e ce lo meritiamo.
C’è una frase che ho sentito dire dopo il concerto dei The National a uno dei ragazzi con cui ho condiviso casa: io forse tutta questa bellezza non me la merito. E invece perché non dovremmo meritarcela? Se non come singolo, come unica realtà fatta di menti e corpi che vivono, e vivono tutto. Perché uno degli slogan di questa manifestazione deve essere “Your unexpected Sicily”? Perché non potrebbe invece essere prevedibilissima?
Nel monologo di Nostalghia di Andrei Tarkovsky viene detto: Bisogna riempire gli orecchi e gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno. Qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi. Non importa se poi non le costruiremo. Bisogna alimentare il desiderio.
Qualcuno ventitre anni fa ha immaginato Ypsigrock, magari non nella forma in cui lo conosciamo adesso, ma ha alimentato un desiderio e ci ha portato fino a qui. Dobbiamo farlo tutti, insieme. Io desidero di tornare, per esempio. Desidero altra bellezza – ne abbiamo bisogno.