Nel nuovo film diretto da Sam Mendes (American Beauty, Revolutionary Road, Skyfall), candidato a dieci Premi Oscar (tra cui Miglior Film, Regia e Fotografia), il contesto è delineato con precisione e assenza di fronzoli: siamo in Francia nel 1917, e la Prima Guerra Mondiale è al suo zenit. I due caporali Schofield (George McKay) e Blake (Dean-Charles Chapman) ricevono dal generale Enrimore (Colin Firth) l’incarico di attraversare la Terra di Nessuno tra la linea franco-inglese e quella tedesca per consegnare un messaggio al generale Mackenzie (Benedict Cumberbatch) che può salvare la vita di quasi duemila soldati da un possibile massacro. Per il caporale Blake la missione sarà anche l’occasione di riunirsi al fratello (Richard Madden), a sua volta tenente del secondo Devon.
Per trasporre sul grande schermo l’esperienza della guerra di logoramento in trincea, tra cortine di filo spinato e la compagnia costante di topi e vermi, Mendes ha scelto l’espediente del (falso) piano sequenza, limitando al minimo gli stacchi di montaggio opportunamente mascherati per dare allo spettatore la sensazione di ripresa fluida e continua, ininterrotta nell’azione, in tempo reale. La macchina da presa bracca i due protagonisti, esplorando assieme a loro l’imponente e suggestivo set allestito da Dennis Gassner, e sfruttando la profondità di campi lunghi e medi per riempire lo schermo di dettagli mai fini a sé stessi ma sempre pertinenti all’economia dello sviluppo del viaggio. Pur essendo in perenne movimento nel suo aggirare gli ostacoli che la missione pone mano a mano sulla strada dei due caporali, la regia di Mendes percorre trincee claustrofobiche e campi di battaglia spettrali (a metà film, il direttore della fotografia Roger Deakins costruisce una spettacolare scena notturna in cui il solo chiarore dei razzi di segnalazione trasforma le rovine di un villaggio bombardato in minacciose apparizioni demoniache) con un piglio che mancava, giusto per non allontanarci dal contesto della Grande Guerra, allo Spielberg di War Horse, e ne restituisce tutto il clima di paura, sporcizia e staticità.
La sceneggiatura scritta a quattro mani da Mendes e Krysty Wilson-Cairns è volutamente essenziale, e predilige maggiormente la valenza espositiva delle immagini a discapito della parola: non c’è tempo per grandi discorsi sul peso che la guerra può avere sul corpo e la mente del soldato, ciò che conta è la missione e il dover restare in vita. Il minimo passo falso può decretare la morte, e il vero nemico, come declama la tagline della locandina, è il tempo. La forma si subordina al contenuto; il lato emozionale scandito da una colonna sonora di Thomas Newman saggiamente sottotraccia emerge sempre nei momenti più opportuni e con la dovuta efficacia; gli sporadici accenni di retorica vengono relegati alle figure secondarie dei superiori, messi sotto una luce negativa di boria o disillusione e di conseguenza svuotati di vero significato.
Con 1917, Sam Mendes costruisce un film visivamente ricco e innovativo, poco paragonabile al più corale e ancor più scarno Dunkirk di Christopher Nolan, per quanto la campagna marketing si sia impegnata in tutti i modi a presentarlo quasi come una copia. Più che un film di guerra, è un vero e proprio survival a sfondo bellico; mancano veri scontri a fuoco (per il carico di violenza viscerale, meglio citofonare a Hawksaw Ridge di Mel Gibson), il focus è mantenuto sulla difficoltà, sul senso di responsabilità e la capacità di sapersi orientare in uno scenario di morte senza cedere alla paura o al desiderio di abbandonare i compagni alla catastrofe per avere salva la vita. Un tipo di cinema puro, vero, sudato, fatto di corpi e fatica che, lungi dall’essere un semplice sfoggio di tecnica, affianca bellezza e poesia con le crudeltà del contesto bellico in un balletto cinematografico degno dei numerosi riconoscimenti ottenuti che riesce ad attingere l’umanità in una guerra priva di eroi.