L’epos è cambiato, è un dato di fatto. Dal clangore dei campi di battaglia, dall’ira del Pelide Achille, dalla cavalleria di re Artù e Orlando, perfino dall’epica aviatoria di D’Annunzio, si è passati a un altro tipo di narrazione eroica, a un incantato narrare di altre, inedite gesta. Non più, quindi, “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese” si cantano, bensì altre imprese, che avvengono in uno spazio ben delimitato – un rettangolo di gioco o una pista d’atletica – e che hanno per protagonisti non semidei invincibili, ma umanissimi mortali: gli sportivi. Potremmo ridere di questo cambiamento, considerarlo un sintomo di decadimento della nostra cultura, dei costumi e dei valori. Ma come? Da nobili ideali e armi di bronzo passiamo a ventidue cretini che rincorrono un pallone in mutande? Siamo diventati simili ai Romani della tarda antichità, grassi e impigriti, intenti a spronare i gladiatori al reciproco massacro mentre, intorno a noi, incombono i barbari? Lo sport, quando non è la corsetta mattutina praticata per sentirsi bene con se stessi, è ammantato di un alone carico di pregiudizi stereotipali: birra, noccioline, tivù e maleducazione. Con la letteratura, poi, si pensa non abbia niente in comune: il raffinato letterato si ingobbisce sulla scrivania, non suda su un prato in pantaloncini e calzettoni! Eppure, Umberto Saba compose una poesia intitolata Goal, e l’intellettuale più completo del XX secolo, Pier Paolo Pasolini, bruciava le fasce dei campi di periferia ogni domenica, ogni qualvolta ne avesse la possibilità. Eccezioni? Stravaganze? Non proprio. Perché, a ben vedere, lo sport è sacrificio, passione, dedizione, amore puro e irrazionale, gioia e dolore. È insomma espressione umana e contenitore di tutti i sentimenti che l’umanità porta con sé. È insomma epos, vero e autentico. La chiave per uscire dalla visione un po’ miope e dispregiativa che si ha verso lo sport è raccontarlo non come mera cronaca, ma valorizzandone questi aspetti autenticamente umani. Il che è proprio il compito della GL (Grande Letteratura). E se non credete che il binomio libri-sport possa veramente dare risultati pregevoli, con l’elenco che segue proveremo a farvi cambiare idea.
Calcio
Anthony Cartwright, Iron Towns, 66thand2nd
L’Inghilterra di un tempo non c’è più. Ne abbiamo parlato anche qui su L’Indiependente recensendo Middle England di Jonathan Coe. Ma, in concreto, cosa ne è stato di tutta quella zona ex industriale compresa tra Londra e Newcastle, fagocitata dalla globalizzazione e dalle multinazionali cinesi e giapponesi? Come si vive, oggi, nelle Midlands? Lo descrive alla perfezione Iron Towns. Liam Corwen è un calciatore ormai prossimo al ritiro, che decide di tornare nella squadra della città natale, militante in League One, per chiudere la sua carriera in un’immaginaria Ringkomposition. Sul suo corpo, Liam ha tatuato i grandi protagonisti del calcio mondiale, immortalati dall’inchiostro sulla pelle nel preciso istante in cui, tramite un goal o una giocata, hanno iscritto il loro nome nella storia del calcio. Un empireo che ormai si è rassegnato a non raggiungere più, nonostante la fugace e controversa comparsata nella nazionale inglese di qualche anno prima. Ma intorno a lui e alla disastrata squadretta dell’Iron Towns gravitano anche gli altri protagonisti, personaggi smarriti, perduti e disillusi che hanno perso qualsiasi senso di appartenenza alla loro città, al loro paese e, in fondo, alla loro esistenza. L’unico elemento coesivo rimasto, volenti o nolenti, è l’Iron Towns. Il libro di Cartwright, intenso e profondo, è tanto più significativo se associato a un documentario recentemente uscito su Netflix: Sunderland ‘till I die. Perché la cittadina di Iron Town è immaginaria, ma Sunderland è reale, è composta dai corpi, dalle ossa, dal sangue e dalle speranze di chi ci vive, di chi lavorava nei grandi cantieri navali o nelle miniere chiuse dalla Thatcher e che oggi è rimasto con niente. Niente, se non l’incrollabile fede nella squadra locale.
Basket
Ian Sagar, Le mie vite in gioco, add
Ancora le Midlands protagoniste, ancora la crisi dell’Inghilterra a cavallo tra gli anni ’90 e 2000. Sì, ma cosa succede se, a questo già non roseo contesto, si aggiunge un gravissimo incidente in motorino che ti costringe, a neanche diciotto anni, a fare i conti con una paralisi totale delle gambe? Le reazioni possibili sono due: arrendersi o rimettere in gioco la propria vita. È questa la strada che sceglie Ian Sagar, campione europeo e bronzo olimpico con la nazionale paralimpica inglese di basket. In un racconto scorrevole e leggero, che guarda alle difficoltà con quella positiva attitude di resilienza oggi tanto in voga, Sagar ripercorre le principali tappe della sua carriera e della sua vita, o meglio delle sue “vite”, sempre rimesse in gioco: dall’incidente che per sempre ha cambiato la sua prospettiva – non più eretta ma ad altezza carrozzella – al passaggio allo sport professionistico fino alle esperienze sportive in Spagna e Italia dove, con la maglia della Brientea 84 Cantù, ha vinto tutto quello che si poteva vincere e ha trovato l’amore. Un’autobiografia importante, perché testimonia non solo il grande lavoro di introspezione che il giocatore ha compiuto su se stesso e sulle proprie vicende, ma anche quanta vita, sogni e speranze possano celarsi dietro un rimbalzo, un tiro libero e un canestro.
Rugby
Claudio Fava, Mar del Plata, add
Uno per uno. Sono andati a prenderli uno per uno i ragazzi della squadra di Mar del Plata, cittadina costiera della provincia di Buenos Aires. Mentre l’Argentina si prepara ad ospitare i Mondiali di Calcio del 1978, una vetrina durante la quale il durissimo regime di Videla deve mostrarsi con il suo volto più sorridente e affabile, è una piccola squadra di rugby a non voler piegare il capo di fronte alla dittatura. A dare l’avvio alla vicenda intera è la morte del primo giocatore, Javier, ucciso in quanto studente di tendenze comuniste e immischiato nelle assemblee universitarie. Sparisce così, dopo un allenamento, senza lasciare traccia, salvo poi essere ripescato giorni dopo da un fiume, il cranio bucato da una pallottola e le mani legate col fil di ferro. Questo episodio, lungi dallo spaventare i suoi compagni, li compatterà, donando loro una coscienza sociale e politica. Il loro obiettivo sarà non solo la vittoria finale nel campionato, ma non far dimenticare le ingiustizie e le atrocità sotto gli occhi di tutti, ma pavidamente ignorate, in Argentina. Più che le partite, saranno i minuti di silenzio che le anticipano a diventare manifesto. Minuti infiniti, carichi di rabbia, orgoglio e una rumorosissima ribellione silenziosa. E non importa se per questo, a uno a uno, il regime verrà a prendersi tutti i giocatori. Ci sarà sempre un giovane pronto a subentrargli, ad afferrare la palla ovale e correre sul campo. L’importante, è che alla fine ne resti uno: Raul. A lui toccherà il fardello più grave, più tosto e doloroso di una mischia furibonda a metà campo: ricordare, e far ricordare.
Ciclismo
Alberto Toscano, Gino Bartali. Una bici contro il Fascismo, Baldini + Castoldi
Gino Bartali, anche per il suo carattere chiuso, introspettivo, da autentico toscanaccio (testimoniato anche dal suo soprannome, lapidario come una sentenza: Ginettaccio) non ha mai goduto dei favori dei riflettori. Quelli, più delle vittorie che invece con Ginettaccio era costretto a spartire, se li prendeva il rivale Fausto Coppi, a cui difatti le radiocronache dell’epoca hanno regalato una delle più belle “inquadrature a zoom” vocali mai realizzate dalla Rai: “Un uomo solo è al comando. La sua maglia è bianco-celeste. Il suo nome è Fausto Coppi”. Il radiocronista Mario Ferretti raccontò così, con abile effetto di suspance, la penultima tappa del Giro d’Italia 1949 alle migliaia, se non milioni di Italiani incollati alle radioline. La tappa fu talmente epica da impressionare Dino Buzzati, che restò stregato da quello che definì un “incanto del pedalare emerso dall’infernale fatica”. Ecco, al secondo posto di quella tappa si piazzò Bartali, destinato spesso ad avere un ruolo nell’ombra, pur essendo anche lui, con un palmares di tre Giri d’Italia e due Tour de France, un campionissimo. Con Gino Bartali. Una bici contro il Fascismo, Alberto Toscano si propone di ricollocare Bartali sotto la luce che merita, facendo scoprire ai lettori non solo il campione, ma soprattutto l’uomo. Colui che, in silenzio, senza stare a sbandierarlo tanto ai quattro venti, salvò migliaia di ebrei trasportando documenti falsi nell’intelaiatura della sua bici, per il semplice motivo che era “giusto così”. Un uomo semplice, marito devoto e italiano religioso, che proprio per questo piaceva al grande pubblico e che, nella sua modestia, si opponeva al mito del vir Romanus e Fascista. Umanissimo e al contempo mitico nella sua fatica: un Sisifo che, al posto del masso, spinge costantemente in salita la sua bicicletta.
Tennis
Andre Agassi, Open, Einaudi
Open è il libro che, senza esagerazione, ha sancito un definitivo punto di svolta nella letteratura mondiale e nella percezione dello sport nella letteratura. Finalmente, uno sportivo parlava di sé senza trincerarsi dietro alla maschera della celebrità, senza ricorrere a frasi fatte da buttare in pasto alla massa dei fan. L’introspezione a cui Agassi si dedica fa sì che si trascenda dalla mera biografia, per scavallare nel romanzo di formazione. Dolore, solitudine, ansia, non trofei, gioie e bella vita. È questo che sancisce la grandezza di Open, che lo avvicina al lettore a prescindere dal contesto specifico – il tennis – di cui si parla. D’altronde, non siamo tutti, se non quasi, costretti quotidianamente a fare qualcosa che non ci piace per portare a casa lo stipendio, per compiacere qualcuno o, semplicemente, perché quella che svolgiamo è l’unica tipologia di vita che conosciamo? “Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta”. Cosa c’è di più umano, di più universalmente riconoscibile di questa frase?
Marcia
Andrea Schiavon, Cinque cerchi e una stella, add
L’attentato compiuto dal commando palestinese Settembre Nero alle Olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972 è uno degli episodi terroristici più tristemente conosciuti della storia sportiva. Ma in pochi sanno che, tra i sopravvissuti della squadra israeliana, c’era un certo Shaul Ladany, marciatore. Alla gara di marcia, che era svolta il giorno prima dell’attentato presso il villaggio olimpico, Ladanay era arrivato 19°. Un risultato tutt’altro che eclatante, non certo degno di essere scolpito negli almanacchi sportivi. E allora perché tanta attenzione per Ladanay? Perché dedicargli addirittura un libro? Perché, oltre che all’attentato del ’72, Ladanay era già riuscito a sopravvivere a un altro massacro, di proporzioni addirittura maggiori: l’Olocausto. Un anno a Bergen Belsen, all’età di 8 anni, assistendo alla morte di quasi tutta la sua famiglia. Quindi il trasferimento in Israele, la laurea in ingegneria e quella passione, mai accantonata, per la marcia, la più faticosa delle discipline atletiche dopo (o insieme) alla maratona. Ma la sua marcia, più che sul tartan di una pista (che gli è comunque valsa 28 medaglie in patria e due partecipazioni alle Olimpiadi), si è svolta nella storia: dall’Olocausto a Monaco, dalla Guerra dei Sei Giorni a quella dello Yom Kippur, da Eichmann a Nixon. Ladanay ha marciato attraverso il XX secolo, vivendo da protagonista la storia del suo popolo prima e del suo Paese poi. Con la fatica, i crampi e il sudore del marciatore. Ma sempre senza perdere il sorriso che faceva paio con i suoi occhiali rotondi, consapevole, nonostante le atrocità viste, della ricchezza della vita. “Possiamo definirti il sopravvissuto per eccellenza?” gli chiedevano spesso i reporter. “Non saprei,” rispondeva lui, “diciamo che di sicuro, nella mia vita, non ha mai vissuto momenti noiosi”.
Baseball
Don De Lillo, Pafko at the wall, in Underworld, Einaudi
Questa volta non un intero libro, ma un prologo, un racconto introduttivo all’opera magna di De Lillo, Underworld. Perché lo scrittore statunitense ha scelto proprio questo episodio, “Il colpo che si è sentito in tutto il mondo”, per introdurre il suo monumentale affresco dell’America post-moderna? Per capirlo, serve un po’ di contesto: a New York si sta giocando la finale di baseball tra New York Giants e Brooklyn Dodgers. Al nono inning di una partita combattutissima, il battitore Bobby Thompson centra in pieno la pallina, spedendola fuori campo per il punto che vale la vittoria ai Giants. La folla è in visibilio, i giocatori esultano per il trionfo. Ma c’è un ragazzino di colore, intrufolatosi nello stadio di straforo, che ha un ulteriore motivo per festeggiare. La palla del fuoricampo, infatti, ormai dimenticata e ignorata da tutti, è finita nelle sue mani. Un cimelio inestimabile, o almeno così crede. Perché suo padre, una volta che il ragazzo è rincasato, gli sottrarrà la pallina e la venderà ad un prezzo ben specifico: 32 dollari e 45 cent. Ecco allora che la pallina colpita da Thompson diventa una sorta di oggetto feticcio, un filo rosso che passerà di mano in mano tra i diversi protagonisti di Underworld. Ma quel homerun rappresenta, per De Lillo, molto più che un semplice artificio narrativo. Rappresenta un momento, uno spartiacque capitale nella storia americana. L’impatto del cuoio della pallina con il legno della mazza sancisce, senza che nessuno ne sia davvero consapevole, la fine di una fase edenica dell’America e l’inizio della sua caduta nella Guerra Fredda e nel post-modernismo. È così che, secondo De Lillo, tramonta la grande epoca dell’America: tra cappellini da baseball, hot dog e bicchieri di birra in plastica.
Surf
William Finnegan, Giorni selvaggi, 66thand2nd
Lo sport, che nei libri finora citati è elemento positivo di miglioramento ed evoluzione di sé, può avere però anche il carattere opposto. Può essere distruttivo, sfociare nell’ossessione, avvelenare un’esistenza fino a farne perdere il senso. E soprattutto, a differenza di quanto scritto in Open, talvolta questo avvelenamento può essere volontario. Lo sa bene William Finnegan, ora giornalista e reporter di guerra basato a New York, che per anni però non ha esitato a cambiare plurimi mestieri, vivere alla giornata e addirittura abbandonare una famiglia pur di inseguire un semplice sogno: cavalcare l’onda perfetta. Obiettivo a portata, si potrebbe pensare, basta apprendere le tecniche rudimentali del surf (ok, qualcosa in più di quelle “rudimentali”) e recarsi nei paradisi icona dei surfisti. Certo, ma c’è un piccolo problema. Ossia che l’onda perfetta è sempre quella che ancora deve venire. Ecco allora un’alta fatica di Sisifo, destinata a rimanere eternamente incompiuta per quanto ci si applichi. Finnegan racconta il suo percorso, quasi un percorso di rehab, per arrivare a maturare la consapevolezza che un’utopia resterà sempre irraggiungibile. Tocca allora re-imparare a costruirsi una vita, a trovare una stabilità e un punto fermo. A trovare, in buona sostanza, la propria tavola da surf che galleggi su quell’oceano vasto e impetuoso che è la vita.
Alpinismo
Katia Lafaille, Senza di lui, CDA & Vivalda
La passione irrazionale, bruciante e totalizzante per uno sport è vissuta, nel libro di Katia Lafaille, dalla prospettiva opposta rispetto a quello di Finnegan. Katia, alpinista svizzera di grandi prospettive e doti, rinuncia infatti alla sua carriera per amore dell’uomo della sua vita, Jean-Christophe Lafaille, uno dei più grandi alpinisti degli inizi del XXI secolo. Per lui, Katia diventa manager, ufficio stampa, organizzatrice di spedizioni, reimpostando il suo rapporto con la montagna in chiave amatoriale e non professionale. Questo, fino al 2006, quando Jean-Christophe, come tanti altri suoi colleghi anche di recente, deve arrendersi alla forza della montagna, ucciso dagli 8000 metri del Makalu, la quinta vetta più alta della terra situata tra Nepal e Tibet. Katia sarà d’ora in avanti costretta a convivere con l’assenza dell’uomo da lei amato sopra ogni altra cosa e, soprattutto, a fare pace con la montagna, accettandone non solo le grandezze, ma anche le miserie. Ne emerge un quadro sincero e appassionato dell’alpinismo di professione, descritto con il disincanto di chi, alla montagna, riconosce il potere quasi soprannaturale di donare al contempo vita e morte.
Boxe
Tiberio Mitri, La botta in testa, Sellerio
Cambiando sport, si passa dai sogni inseguiti a quelli mai realizzati. Se fosse così semplice, d’altronde, realizzare i propri sogni saremmo tutti calciatori da Pallone d’Oro, attori, cantanti, scrittori o astronauti. Ma nella maggioranza dei casi, queste chimere d’infanzia non si realizzano. Tiberio Mitri, “il più bel pugile d’Italia del dopoguerra”, tesse con La botta in testa la sua autobiografia del “quasi”: quasi campione del mondo dei pesi medi (perse lo scontro contro il leggendario Toro Scatenato Jake LaMotta) quasi divo dei rotocalchi italiani, quasi attore cinematografico e quasi scrittore. Sì, perché di tutte le cose che Mitri fu sul punto di realizzare, pare esserci anche quest’autobiografia, che in molti non ritengono scritta solo (o in assoluto) da lui. Ciò che a Mitri riuscivano bene, invece, era farsi degli amici, frequentare le cosiddette persone giuste. E tra queste ci fu anche lo scrittore Gian Carlo Fusco, la cui mano si riconosce in molte (se non tutte) le pagine del libro. Un libro apprezzabile su due fronti: per la vivida descrizione dell’Italia del dopoguerra, che dalla povertà passa al boom economico, e per la costante forza che l’autore/protagonista manifesta di fronte a ogni gancio rifilatogli dalla vita. Le esistenze si attraversano anche così: barcollando come pugili suonati, cercando di restare in piedi e di strappare una vittoria ai punti.