A alegria é a prova dos nove / e a tristeza é teu porto seguro / Minha terra onde o sol é mais lindo / e Mangueira onde o samba é mais puro / Tumbadora na selva-selvagem / Pindorama, país do futuro
Torquato Neto and Gilberto Gil, Geléia geral, 1968
Come si racconta una rivoluzione e, ancor più, come si fa a raccontare una rivoluzione in cui i ribelli non hanno sparato nemmeno un solo colpo? Ogni qualvolta si pensa alla musica brasiliana si rischia di commettere un errore madornale. Ridurre la musica di una nazione – che è a suo modo un continente coi suoi oltre duecento milioni di abitanti sparsi su quasi nove milioni di km quadrati, un coacervo di territori, culture e tradizioni anche diversissimi tra loro – a un solo genere: quello della bossa nova (letteralmente “onda nuova”), quella new wave che, verso la fine degli anni cinquanta, impose al mondo intero una musica che, partendo dal samba, seppe incantare ben oltre i confini del continente panamericano influenzando in maniera sostanziale tanta parte della musica europea e anglo-centrica, dalla leggera al jazz.
Fin dal titolo che non lascia spazio a equivoci, Pietro Scaramuzzo nel suo Tropicália – uscito nel pieno della scorsa estate per Minimum Fax – concentra, invece, il suo sguardo intorno a un momento preciso della storia della musica brasiliana – ma musica è riduttivo: della storia tout court, culturale politica del Brasile – ben evidenziato dallo stesso sottotitolo “La rivoluzione musicale nel Brasile degli anni Sessanta”; una rivoluzione operata da un gruppo di ragazzi capaci di spazzare via con allegria e determinazione una cultura per certi versi ormai datata, aprendosi a un’inedita mescolanza tra le radici delle diverse musiche territoriali e il suono nuovo proveniente dall’Inghilterra, in primis quello dei Beatles di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band che nel 1967 arrivò ad ampliare le prospettive di un movimento già in nuce volto a realizzare quel “processo di contaminazione tra cultura sudamericana ed europea a cui guarda da sempre con grande interesse”.
Caetano Veloso, Gilberto Gil, Os Mutantes – Arnaldo Baptista, Rita Lee, Sérgio Dias – Maria Bethania (almeno fino a un certo momento), Gal Costa, Tom Zé, Nara Leão furono tra i protagonisti non di una nuova onda ma di una ventata di freschezza che, chitarra in mano, diede vita a una rivoluzione entusiasta e irriverente, capace di soffiare da Bahia a São Paulo – passando per Rio de Janeiro – e che intrecciò la sua nascita e il suo futuro destino a momenti difficili durante i quali lo stesso Brasile si avviava tanto lentamente quanto inesorabilmente verso la dittatura militare e la progressiva, implacabile riduzione delle libertà.
Merito di Scaramuzzo è proprio quello di non ridurre il racconto a un’enciclopedica rassegna di dischi e dei protagonisti di quella stagione per molti aspetti irripetibile, ma di stringere il campo, centrando l’obiettivo di un’immaginaria camera di presa – e tanta parte ebbe su quel movimento l’innovazione culturale del cinema novo di Glauber Rocha – sugli snodi che negli anni compresi tra il 1964 e il 1972 portarono all’affermazione non solo di un nuovo genere musicale ma di un intero movimento culturale.
Il Tropicalismo – o Tropicália, appunto – nacque, infatti, da una corrente più ampia di quella musicale. Ne fa un’ottima rappresentazione l’autore che, mescolando i piani temporali, ci porta dentro i fervori culturali di una nazione alle prese con il proprio rinnovamento. Lo stesso termine Tropicália – almeno all’inizio quasi inviso ai suoi stessi fondatori – nasceva da un’opera d’arte dell’artista Hélio Oiticica presentata nel 1967 – anno di svolta nel movimento tropicalista – intitolata proprio Tropicália: “un ambiente artificiale costituito da due spazi penetrabili in cui il pubblico è chiamato ad addentrarsi per essere divorato dall’opera. […] Sabbia, piante, poemi-oggetto e un’architettura che ricorda quella delle favelas […] secondo l’autore, il primissimo tentativo di imporre un’immagine brasiliana al contesto dell’avanguardia”. Il Tropicalismo musicale, come l’opera cui deve il nome, traeva valori fondativi dal Manifesto Antropófago creato dal poeta Oswald de Andrade nel lontano 1928. E il concetto di antropofagia, di divoramento delle esperienze passate e presenti sempre volto non a una mera e banale replica quanto a un’attitudine spiritualmente cannibale, capace, cioè di interiorizzare la preda al punto tale da farsi medium di un universo nuovo rispetto alle fonti primarie, è certamente alla base del movimento tropicalista.
Caminhando contra o vento / Sem lenço e sem documento / No sol de quase dezembro / Eu vou
Caetano Veloso, Alegria, Alegria, 1968
Il Brasile non rappresenta un semplice sfondo tra tutti quelli possibili, ma il solo palcoscenico per l’esplosione del movimento. Quello che i tropicalisti si trovarono a dover fronteggiare – quasi sempre senza drammi personali, anzi con quello spirito da avanguardia dadaista cui pure s’ispirarono – fu l’opposizione di un mondo ostile al cambiamento nel quale addirittura un certo conservatorismo musicale – spesso anche giovanile – anche da chi in parte poteva essere considerato insospettabile – come fu per Elis Regina – finiva con l’essere il riflesso di una società immobile dietro gli steccati della propria visione reazionaria dell’arte.
Leggere Tropicália è anche immergersi dentro le dinamiche e i meccanismi di un tempo ormai lontano. È un piacere sfogliarne le pagine e scoprire come un intero movimento giovane e rivoluzionario si affermò, poi, di fatto, attraverso soprattutto gli studi televisivi e le trasmissioni musicali che, presto, divennero come un ring dove si affrontavano – tra fiducia e perplessità – mondi ormai contrapposti. Del resto non solo è facile pensare come anche l’Italia degli anni sessanta fosse musicalmente dominata dalle trasmissioni televisive, ma rapportandosi alla vastità della terra brasiliana è ancora più immediato comprendere come solo un così grande mezzo di comunicazione – per l’epoca – potesse davvero far esplodere un fenomeno musicale con un’eco così vasta nel paese. Certo, non furono solo studi televisivi: la Tropicália fu un movimento nato dal basso e cresciuto spontaneamente che ebbe nei teatri di Bahia prima, come anche negli appartamenti a due passi dalla spiaggia – spesso condivisi da musicisti e artisti in genere – una sorta di set per una musicale Sala della Pallacorda dove reimmaginare la grammatica e l’estetica – in definitiva il sogno e la rappresentazione di un futuro – dell’intera società brasiliana.
In un racconto che sa sempre essere appassionante e allo stesso tempo incredibilmente leggero, Tropicália lascia penetrare il lettore all’interno di un movimento che, di là dalle istanze personali e autonome dei suoi protagonisti, seppe anche parlare con voce nuova alla gioventù del Brasile, creando una rottura e mostrando una strada possibile verso una nuova commistione di generi e di linguaggi che non fosse obbligata a replicare quella subìta, del colonialismo portoghese e dell’universo creolo. Lo sguardo verso l’Inghilterra non fu mai per i tropicalisti un modo di abiurare la propria natura e le proprie radici, tutt’altro. Fu il tentativo prima, quindi la dimostrazione ormai evidente di una possibilità realizzata: “un nuovo linguaggio, diverso da generi più tradizionali come samba e bossa nova […] erano riusciti a sviluppare una dialettica che, seppure si alimentasse della matrice della tradizione musicale brasiliana, la proponeva secondo strutture rinnovate e spesso contaminate dal pop e dal rock” declinate secondo la propria cultura che nei fatti – politici, culturali e storici – mai fu e mai è poi stata una storia scevra dal valore aggiunto della contaminazione.
São Paulo, 15 ottobre 1966. Un’ora e sei minuti. È il tempo che l’autobus impiega normalmente per coprire la distanza tra i quartieri di Vila Mariana e Vila Pompeia. Rita, la ragazza, che attende alla fermata in rua Vergueiro, e che a Vila Mariana ci abita, lo ha cronometrato più di una volta perché quello è l’intervallo temporale che separa i suoi sogni dal luogo in cui realizzarli.
Mentre Maria Bethania poco a poco si defilerà dal movimento mantenendo una voce in qualche modo del tutto personale, in pochissimi mesi i tropicalisti daranno alle stampe una serie di dischi che faranno da contrappunto tangibile alle rivoluzioni dal vivo andate in scena in quegli anni sulle assi di un palcoscenico e sotto le luci di uno studio televisivo. Nel sessantotto escono i dischi omonimi di Caetano Veloso, Gilberto Gil e degli Os Mutantes, ma soprattutto a luglio dello stesso anno viene pubblicato Tropicália: ou Panis et Circencis, il disco collettivo che, oltre ai nomi citati, vede la presenza di Gal Costa, Tom Zé e Nara Leão. Era e resterà come il manifesto più autentico del Tropicalismo, fin dalla copertina un tripudio di colori e simboli, di culture, razze, idee sociali e musicali. La testimonianza forse più tangibile – insieme ai resoconti dei concerti – di quello che fu un movimento nel senso pieno del termine, una musica sociale e collettiva nata da un gruppo di colleghi e amici che davvero nel giro appena di una manciata d’anni riscrissero la storia musicale del loro paese.
Eu agradeço ao povo brasileiro / Norte, Centro, Sul, inteiro / Onde reinou o baião
Caetano Veloso, You don’t know me, 1972
Un paese – ed è un aspetto impossibile da tacere e che puntualmente emerge dalle pagine del libro – nel quale la rivoluzione tropicalista si fece contraltare di un clima politico sempre più cupo e autoritario fin dal colpo di Stato del 31 marzo 1964 – anno in cui comincia la storia raccontata nel libro – che destituì João Goulart, instaurando un regime dittatoriale. Lo scioglimento progressivo di tutti i partiti, la dittatura detta dei gorillas del Maresciallo Castelo Branco prima, quella di Emilio Médici poi, segnarono il passo di una politica sempre più votata a un liberismo economico sfrenato che, oltre a privare i cittadini dei più elementari diritti, di fatto provocò l’inasprimento delle sperequazioni sociali. Fu in questo clima – che dal 1969 conobbe anche un relativo boom economico destinato a crollare con la crisi petrolifera del 1973; la dittatura cadde solo nel 1985 – che si consumò la stagione tropicalista fra sospetti sempre più forti e scontri all’ordine del giorno con i militari, tra partecipazioni alle ultime manifestazioni di protesta fino all’esilio dell’estate del ‘69 quando Gil e Veloso furono di fatto espulsi dal paese – perché considerati eversivi e una minaccia per le menti dei giovani brasiliani – trovando riparo a Londra dopo 55 giorni di carcere in Brasile in cui si tentò di fiaccarne idee e orgoglio. Furono fortunati: Torquato Neto, che pure aveva partecipato come autore a Tropicália: ou Panis et Circencis, poeta e scrittore, si suicidò nel 1972 proprio dopo le torture subìte nelle carceri del regime.
Fu così che ebbe in qualche modo il suo epilogo l’euforia tropicalista. A Londra, a Portobello Road, i due rappresenteranno ancora il centro nevralgico di una certa idea brasiliana di vita, musica e arte, ma la lontananza dalla loro terra sarà un duro colpo per una certa idea di tropicalismo che – orfana dei suoi figli più legati alla causa politica e artistica, ideologi e leader della Tropicália – continuerà, certo, attraverso il lavoro degli altri rimasti in Brasile fino al ritorno dei due amici fraterni Gilberto e Caetano; eppure i dischi da esuli – Expresso 2222 di Gil e il bellissimo Transa di Veloso, entrambi del 1972 – sono già proiettati anche altrove, all’Africa, al reggae, mescolati ai suoni londinesi, ascoltati per le strade e non più sui dischi, sono già la ricerca di altro, fedeli in fondo a quell’antropofagia che non poteva tradire sé stessa nel restare immobile. Quando nel 1974 il movimento può dirsi concluso nella sua fase storica con l’uscita di Acabou chorare del collettivo Novos Baianos – considerato da molti, con un eccesso di generosità il miglior disco brasiliano di sempre – band rock ma fortemente ancorata al samba e alla bossa nova sotto l’egida del nume tutelare João Gilberto, non si può certo dimenticare come il gruppo nascesse dalle ceneri degli Os Leifs che parte importante pure ebbero nella Tropicália, a dimostrazione dell’incredibile influenza di quella stagione.
Forse è anche per questo che Scaramuzzo decide di fermarsi qui, di non raccontare Tropicália 2 il disco che celebrò la fine della dittatura restituendo successo e riconoscimento a quel movimento distante nel tempo quasi vent’anni.
Perché il Tropicalismo è stato in fondo proprio questo: una scintilla accesa all’improvviso, un modo di guardare oltre, di sognare e immaginare una vita di là da tutti i possibili steccati. È in questo – ci racconta questo libro – che c’è la sua grandezza, nella capacità di accendere delle menti giovani e poi lasciarle percorrere la propria strada, sempre con addosso una curiosità allegra e una malinconia dolce che ogni tanto fa capolino a ricordare tutto ciò che si lascia.