Questi non sono tempi da ascolto. Di rado si riesce a trovare il momento giusto per fermarsi, sedersi e far suonare davvero un album dal principio alla fine e, anche negli intervalli nascosti e nelle pause ritagliate, la predilezione per playlist di Spotify e random shuffle casuali ha spesso la meglio. Ma se puoi permetterti poco più di sessanta minuti, Singularity di Jon Hopkins è in grado di costruire un’esperienza così intensa e travolgente da congelare, per quel lasso temporale, il mondo esterno e restituirti molto più di quanto potessi supporre possibile.
Il quinto disco dell’artista londinese è una meravigliosa esperienza psichedelica, che segue quel tentativo di rottura con la tradizione iniziato cinque anni fa con Immunity, e che aveva trovato terra fertile in un immediato seguito con il crossover sperimentale di altri maestri del genere, vedi Four Tet e Caribou. Se tuttavia quell’album è catalogabile come un affascinante e complesso lavoro di apripista, illuminato da curiose ma ancora sporadiche deviazioni dalla strada maestra dell’elettronica più classica, rimanendo alfine ben saldo nella sua organicità, Singularity è farcito, invece, di continui opposti che si rincorrono, ritmi abilmente elaborati e delicate melodie al pianoforte, oltre ad occasionali voci affannate. Questa volta, sembra esserci una corposa dose di adrenalina aggiunta, in un finalmente agguantato livello di perfetta fusione fra due mondi: l’ambient e la techno.
Innalzandosi al di sopra dei semplici beat, Hopkins fa musica per la mente. Progettato per essere una catarsi psicologica, Singularity inizia con sentimenti di inquietudine, insicurezza e rabbia sottilmente velata. Scure nubi cumuliformi si addensano nell’omonimo brano d’apertura, mentre è un ancestrale battito cardiaco che gradualmente cresce e si espande ad occupare –stridente- la scena in Emerald Rush, il primo singolo estratto. I contorni della melodia che si dipana senza interruzione, con le tracce abili a passarsi il testimone senza intoppi, assumono i tratti di una plumbea perturbazione che, inesorabile conduce nelle fauci industriali spalancate di Neon Pattern Drum e di Everything Connected. Quest’ultimo, definito dal producer inglese affettuosamente “il suo enorme bastardo techno” è uno dei pezzi più “progressive” di Hopkins, dotato di uno scintillìo a metà tra l’ambient e lo shoegaze che lo mantiene sospeso ad altezze siderali, con richiami neanche troppo velati al mostro sacro Open Eye Signal.
Scavalcato il picco energetico del disco ed attraversate le distruttive correnti ascensionali dei synth ultraterreni, Feel First Life diventa l’occhio del ciclone, oasi improvvisa in cui vi è assenza di peso e si fluttua, circondati da un’aura luminosa rassicurante. La luce emanata dal pianoforte svuotato e dal coro afasico dei London Voices creano una calma che si espande in fumosi anelli concentrici, in una sorta di spirito religioso che sfrutta il potere trascendente della musica sacra (l’artista londinese ha studiato al Royal College of Music da adolescente). Il fatto che C O S M abbassi ulteriormente i ritmi, con il basso palpitante opposto a celesti linee acustiche, è solo un preludio alla doppietta finale: da un lato la delicatezza dei rumori da strada appena percettibili sotto le sublimi note di Echo Dissolve e dall’altro, con Recovery, la degna chiusura ad un viaggio così introspettivo. Nel mezzo, Luminous Beings è forse il più fulgido esempio delle doti ipnotiche di Hopkins che, prima attira l’ascoltatore con un sibilo smorzato ed aritmico, poi lo adagia su una nuvola di droni gorgoglianti, per poi torturarlo dolcemente con degli archi strazianti prima di lasciarlo libero.
La cura dei dettagli è uno dei punti più gratificanti di questo lavoro, per l’orecchio. Ogni attimo è stato pensato in profondità e tenuto in considerazione: alcuni ciondoli nascosti come il fischietto lontano che sorregge parte della trama in Emerald Rush, o la pallina da ping pong che rimbalza in sottofondo in Luminous Beings, o ancora, il debole pulsare di un radar sottomarino verso la fine del disco, sono delle vere e proprie gemme uditive raffinate. Ma in generale, il sapiente lavoro di cucitura dei tessuti melodici, con attimi apicali di irreale bellezza musicale, rende Singularity un sofisticato gioco di luci e buio che produce una gargantuesca montagna russa di alti e bassi emotivi. Che sia fatto per mezzo di costose cuffie da audiofilo o accanto a qualcuno che non si conosce al buio di un club berlinese, l’ascolto di questo disco ha un impatto enorme: una voce individuale e inconfondibile in mezzo a una massa urlante e congestionata, un album che non smette e non smetterà di voler farsi riascoltare. Grazie, Jon.