Fare i conti con il nuovo album di Bon Iver vuol dire affondare dentro la sua meraviglia. Sospendersi per una frazione di tempo indefinita, letteralmente travolti e deliziosamente straziati. Ai tempi di For Emma, Forever Ago – album di esordio di Justin Vernon – Obama non era ancora stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America. In piena era Bush jr. – 2007 d.c. – Vernon si presentava al pubblico con un disco intimo e folk che raccontava la fine di una storia d’amore. Le chitarre ci cullavano e trasportavano in un mondo innevato, tra i boschi della Carolina del Nord, dove il cantautore si era rifugiato per comporre l’album. Sapevamo già all’epoca di trovarci di fronte a uno dei più influenti musicisti della contemporaneità?
Probabilmente no, dovevamo ancora capire la maestà di Bon Iver, la terribile classe della sua voce, che non riesce a cadere nei vizi tecnici di James Blake anche quando gli fa il versetto. Bon Iver è un’altra faccenda, attualmente è davvero uno dei maggiori compositori viventi in grado di creare la perfetta soundtrack dei nostri tempi. Ci unisce, dall’Europa agli States, dentro i centri commerciali o nello stereo dell’auto, lo troviamo nei bar, mentre sorseggiamo un aperitivo, e poi a casa, in una vecchia ballata folk che ci fa addormentare, miseramente umani. Lo troviamo nei feat d’autore che continua a sfornare negli ultimi anni (per esempio con Kanye West, con cui ha instaurato un mutuo rapporto di scambio), in side-project come i Volcano Choir, e poi ancora nella bellezza siderale di pezzi come Holocene, Towers o Michicant. Ci tiene per mano mentre rincasiamo, trattiene le orecchie attaccate alle cuffie, è una divinità che appare e scompare, ci ha sedotto con una chitarra minimal à la Bonnie Prince Billy, e poi si è aperto nel 2009 in un magnifico getto orchestrale con il secondo disco Bon Iver, Bon Iver.
L’attesa per 22, A Million non poteva che essere frenetica, in saccoccia portavamo già lo stupore in salsa rimbaudiana: prova a meravigliarci anche stavolta Justin, ci sussurravamo, consapevoli che ci sarebbe riuscito ancora. L’aggettivo magnificent – sussurro in falsetto che si ripete in Holocene – è probabilmente quello che aderisce meglio alla musica di Bon Iver. Già dalla partenza, sin dal primissimo singolo in uscita, 33 “GOD”, Vernon ci ha stesi a terra, con le ossa spezzate: il delitto era già perfetto così. Siamo altrove, è qui che si spargono i magnifici orizzonti dello stupore. Bon Iver va sempre decisamente oltre, sfida se stesso e ci sfida a seguirlo: vieni con me nella mia nuova epoca, ti porto diritto dentro la contemporaneità, lasciati cullare e fidati. E a questo album ci si affida volentieri. A occhi chiusi.
Questa è anche la storia di una conversione alla divinità. La tracklist di 22, A Million somiglia a qualcosa a metà tra i titoli dei pezzi di Aphex Twin e un codice massonico: in realtà è il risultato del processo artistico di Eric Timothy Carlson, che ha usato la numerologia e i simboli grafici per rappresentare le canzoni di Vernon. In 33 “GOD” Bon Iver evoca l’inquieta ricerca di una divinità, “we find God and religions to / staying at the Ace Hotel“. Questo misticismo è strettamente connesso ai simboli criptici dell’artista di Minneapolis, che ha realizzato anche l’artwork della copertina del disco, e ha collaborato alla realizzazione dei video dell’album.
Tutto questo simbolismo agisce ovviamente a un livello inconscio nel nostro immaginario di ascoltatori – e naturalmente ci sarà chi proverà a decifrare inquietanti connessioni tra Bon Iver, i suoi artwork e il gruppo Bilderberg, ma lasciamo volentieri al complottismo in voga certe fantasmagorie, e teniamo stretta alle orecchie la musica. 22 (OVER S∞∞N) è la perfetta introduzione nella mistica del terzo album di Bon Iver, una speciale alba che sorge sulle note di un sassofono in cui Vernon gorgheggia.
Che la voce di Bon Iver sia uno extra-ordinario strumento a se stante non lo scopriamo certo con questo disco, ne avevamo avuto il sentore già nei pezzi più acustici dell’esordio, sensazione che si fa disarmante nella ballata a cappella 715 – CRΣΣKS. Questa capacità strumentale della voce è il cuore del segreto penetrante della musica di Vernon: è attraverso la voce che riesce a trascinare in quell’immaginifico altrove sognante a cui non apparteniamo fisicamente, mettendo in atto una sospensione, amplificata dalla musica e dagli strumenti che lo attorniano.
Pura magia di incastri di sound, in cui passato e presente si mescolano, acustica ed elettronica si sposano. 666 ʇ è emblematica in questo senso, ci trascina “bit – by – bit” in questa immersione mistica. Provate a fare qualsiasi cosa mentre la ascoltate, la meraviglia funzionerà e nulla potrà distrarvi. Bon Iver non somiglia a nessuno, davvero a nessuno, nel panorama contemporaneo: è un magnete caricato per attrarvi in una possessione di anima e corpo. In questa fusione tra i suoni più disparati spoglia di qualsivoglia ossessione accademica, Vernon mantiene la sua originalità e riconoscibilità.
29 #Strafford APTS è altrettanto magnifica e ossessiva, la performance più dolorosa di tutto il disco, si conficca diritta nello stomaco nel suo sali-scendi di suoni a ciclo continuo con effetti alla voce: “Hallucinating Claire / Nor the snow shoe light or the autumns / Threw the meaning out the door“. Allucinante davvero, fendente, letale, a tratti acustica, un piccolo ritorno alle origini riadattato per il ventunesimo. 21 M♢♢N WATER è un episodio altrettanto agghiacciante di questa narrativa di sound, la multi-dimensionalità della musica di Bon Iver esplode soffice tra effetti vocali e incastri sonori, e ci regala una cosa piuttosto rara nell’implosione di velocità con cui siamo compromessi oggi: l’attenzione all’emozione, che continua decisa su 8 (circle). In fondo questo disco tende all’infinito nella sua spazio-temporale e frammentaria unità e circolarità.
In piena epoca Obama, Bon Iver – fondendo acustica e digitale – ha scelto una strada più progressista nel sound con Bon Iver, Bon Iver, dopo quella che potremmo definire la conservazione folk di For Emma, Forever Ago. Sul finire di quest’epoca, alle porte di un’America frammentata e disorientata, Justin Vernon sceglie di osare ancora, proponendo proprio quella frammentazione sonora che si arricchisce in un suo tentativo di unità. Come se i piccoli simboli sparsi nella mitologia dell’intero album, alla fine si unissero in un unico misterioso disegno.
Questo disco è così corposo e stratificato che più lo ascolti più si arricchisce di dettagli. Se fossimo alla ricerca del musicista in grado di rappresentare i nostri tempi oggi probabilmente dovremmo andare a bussare alla porta del nascondiglio di Vernon, in qualche parte dispersa dell’America, ringraziarlo per il bel regalo, per questa narrativa dell’angoscia sonora, dello stupore ancestrale, la comprensione del sentimento della meraviglia in ogni sua declinazione, per questa esperienza extra-corporea, il ritorno alle origini dell’uomo, il re nudo spogliato di tutti i suoi averi, l’ossessiva ricerca di una divinità, di un dio capace di rianimarci, l’amore, con tutti i suoi movimenti di consenso e dissenso, la seduzione in un unico sguardo, il palmo nudo delle mani, l’acqua che scorre dentro la natura selvaggia, e non smette mai – che ci sia la neve lì fuori o il sole alto e caldo, avvolgente e battente sopra le nostre spalle. Un piccolo miracolo primordiale, la primavera e l’autunno, l’arrivo dell’ennesima estate, e il buon inverno – naturalmente. Del resto le stagioni ci sopravviveranno (come questo disco).