Che suono ha New York? Per i più prosaici è indubbiamente la polifonia cacofonica dei clacson, il sommesso borbottio dei motori, lo sferragliare del subway che sembra sempre sul punto di smarrire bulloni lungo il suo tragitto. Per chi, invece, guarda alla Grande Mela con l’occhio dell’innamorato, echeggiano le note di Rhapsody in Blues, un dolce crescendo che accompagna vedute in bianco e nero, belle e romantiche da ogni angolazione. I rampanti e affamati avranno nelle orecchie la voce al velluto di Sinatra che ricorda loro “se puoi farcela qui, puoi farcela ovunque”, i nottambuli guarderanno passare i maxischermi luminosi dal finestrino di un taxi e glorificheranno nella loro mente l’Empire State of Mind di Alicia Keys e Jay-z. Ma in un angolo remoto di New York, collocato in qualche punto tra il Queens e South Bronx, si udirà invece provenire da una finestra aperta un’altra musica, struggente e lontana, accompagnata dal pianto sommesso di qualche nostalgico: sono le canzoni di Julio Jaramillo. E ad ascoltarle, ci saranno Eduardo, Casagrande, Javier e José, i protagonisti di Big Banana.
Il romanzo di Roberto Quesada arriva finalmente in Italia, a vent’anni dalla sua prima pubblicazione in lingua spagnola, provvidenzialmente tradotto e edito da Alessandro Polidoro Editore. Provvidenzialmente, perché la mancanza di quest’opera nelle librerie italiane era un delitto sacrilego nei confronti della letteratura mondiale. La New York in cui si ambienta la storia è infatti una New York diversa da tutte le altre finora vissute su carta, ma anche su schermo: il focus non sono i ricchi dell’Upper side, gli artisti bohemienne del Village o gli alto borghesi di Manhattan; ma nemmeno le gang, violente e affascinanti, del Bronx o le folcloristiche aggregazioni etniche di Little Italy e Chinatown. A essere protagonista è quella massa indistinta, sparpagliata e variegata di latinoamericani che popola e anima New York come sangue nelle vene ma che, proprio per il suo scorrere sottopelle, è spesso poco visibile. Non già dimenticata, ma data per scontata, vista senza essere davvero percepita.
Eduardo, il protagonista, è alter ego dell’autore, il quale ha sua volta vissuto New York da emigrato emarginato, ma vive esperienze proprie e ben specifiche, letterariamente autonome rispetto a quelle dello scrittore. Il giovane honduregno arriva nella Grande Mela con l’obiettivo di entrare nel mondo del cinema. È bello, affascinante e intelligente: possiede insomma tutte le carte in regola per “sfondare”. Già, ma le carte in regola non corrispondono per forza alle carte vincenti. E infatti Eduardo, anziché consumare palchi infilando un provino dopo l’altro, i palchi li aggiusta. Palchi, muri, soffitti: tutto ciò che, in quanto muratore irregolare e senza contratto, gli viene sottoposto come cantiere. Il suo scarno stipendio Eduardo lo spende nell’affitto di una stanzetta nel Queens e in bollette telefoniche della New York Telephone Company, esorbitantemente care perché le interurbane con la sua fidanzata Mirian, il dolce baco da seta la cui voce si infila nell’orecchio di Eduardo, sono l’unico lenitivo possibile alla straziante nostalgia di casa.
Già, Mirian. L’altro polo del racconto. Perché a fronte di chi emigra, c’è sempre qualcuno che resta, ma non per questo si trova in una situazione migliore. La situazione di Mirian, anzi, sembra catastrofica. Da adolescente, infatti, si era innamorata di James Bond, in particolare del James Bond impersonificato da Roger Moore. Ma la sua non era la classica cotta adolescenziale per il divo tv, bensì una vera e propria ossessione, a tal punto totalizzante da obbligare i genitori a portarla da uno psicologo. E fu lui, per tentare di guarirla, ad avere l’intuizione brillante (?) di inscenare un finto rapimento, in cui a salvare Mirian sarebbe arrivato proprio James Bond. Dal momento però che Roger Moore non era disponibile, a interpretare l’agente venne chiamato Eduardo. E da lì, nacque l’amore. Mirian è ora cresciuta e studia giornalismo. Rivela un’intelligenza brillante e una profondità inattesa per la sua giovane età. Si appresta quindi a diventare un’adulta che all’Honduras potrà dare un importante contributo di crescita culturale. L’unica cosa che le manca per la totale realizzazione è di sposare il suo Eduardo, lontano negli States a inseguire il suo sogno.
Eduardo, intanto, è entrato in contatto con un gruppo di emigrati sudamericani molto interessante. A cominciare dal suo coinquilino Casagrande, cileno, omosessuale, nostalgico degli hippie e di San Francisco, che ricopre il ruolo di vero e proprio mentore per l’honduregno. Ma anche Javier, conterraneo di Eduardo, pericolosamente attratto dalla droga a seguito del divorzio; José, ossessionato dai sucres, la moneta ecuadoriana che proprio non riesce a convertire in dollari; una lunga serie di ragazze belle e fascinose, su tutte la colombiana Andrea. La magia di New York influenza anche chi, come loro, non vi è totalmente inserito. In piccole casette periferiche, i latinoamericani ricreano quei domestici circoli culturali che costituiscono l’anima vitale della città. Anziché champagne si beve birra, al posto dei completi raffinati di Gatsby ci sono camicie sbrindellate e T-shirt, le battute argute di Woody Allen sono sostituite da bonari scherzi sulla povertà dei diversi stati del sud America. Cambiano i fattori, ma non la formula dell’equazione. In questo contesto smaccatamente newyorchese, anche se di basso livello, Eduardo dovrà trovare la sua strada, cercare di realizzare la sua ambizione, di far resistere il suo amore e infine decidere cosa vuole essere: se restare Big Banana o diventare l’attore latino che ce l’ha fatta.
Big Banana è il libro che mancava. Brillante, scorrevole, popolato da protagonisti autentici ed empatici, disegnati a tutto tondo fino a farne persone vere. Ma la sua grandezza consiste in qualcosa di più, quel qualcosa che ne ha reso necessaria la pubblicazione anche in Italia. Sfumando contorni e specificità – New York e personaggi sudamericani – emerge in piena forza l’universalità del libro. La fuga di cervelli, il dolore della lontananza da casa, quel miscuglio di nostalgia, orgoglio e speranza, la vitalità che si fa largo anche nell’indigenza sono elementi esperibili a tutti e a tutte le latitudini. Un napoletano trasferitosi a Milano, un italiano emigrato in Germania, un greco espatriato in Inghilterra… L’anima latina di Big Banana si espande dall’Honduras e si intrufola in tutto il bacino del Mediterraneo, parlando la medesima lingua. Non occorre andare lontano per sentire come proprie e capire le sensazioni descritte nel libro. In un mondo sempre più globale, tutti conosciamo un Eduardo, un Casagrande, uno Javier. Talvolta siamo noi stessi a esserlo. Qualcuno tornerà a casa, qualcuno si ancorerà al passato, qualcun altro verrà travolto. I sommersi e i salvati dei tempi moderni. Siamo tutti bananieri, Big Banana, che cercano di dare un morso alla grande mela.